di Ivo Lizzola. Pubblicato in La barca e il mare il 24 settembre 2024.
Il malinteso modo di vivere il rapporto con la colpa nella nostra società
Il lavoro della giustizia va al cuore dell’umano e della “volontà di vivere insieme” (l’espressione è di Paul Ricoeur ne Il diritto di punire)[1]. Ha a che fare con persone e comunità alle prese con deviazioni, fratture e composizioni, ridisegni dei legami. Dentro questa realtà e dentro i movimenti che genera Mario Schermi rappresenta, o meglio svela, i caratteri più propri del lavoro della giustizia: al di là e attorno al “sistema della giustizia”. Tra radice e attesa di giustizia.[2]
Relazioni fra generazioni e costruzione dei legami identitari
Il lavoro della giustizia è quel lavorìo dentro le dinamiche sociali e formative affaticate e incerte, dentro la ricerca di istituzioni giuste e di forme di prossimità capaci di assorbire e attraversare i conflitti. Nella quale si esprime la relazione tra le generazioni, e si gioca la costruzione dei cammini identitari e dell’incontro tra differenze. E il gioco tra le memorie, il loro peso, e le attese di vita e di bene.[3]
Apre al lavoro su di sé, su conoscenze e consapevolezze, sulle relazioni nelle quali si gioca un nuovo apprendimento ed un esercizio del pensiero teso, appunto, sulle memorie e sulle attese di futuro. Questo lavoro fa i conti con le profonde ambivalenze che portano dentro di sè le donne e gli uomini che si scoprono non innocenti e vulnerabili, feritori e feriti nella fiducia e nel rispetto, in balia di sé e di altri. Donne e uomini che pure si trovano (a volte) nella ripresa del gioco della ricostruzione, di nuovi inizi, e nel costruire oltre la distruzione. In nuove, esigenti alleanze con altri pure non innocenti, e in nuove dedizioni e offerte di legame oltre i cinismi, le giustificazioni, i rancori.
Il lavoro sulla “amicizia sociale”
L’amicizia sociale, quella di cui parlavano Aristotele ed i greci[4], e quella ripresa da Francesco nella Fratelli tutti, è realtà dura e difficile, pur se merita impegno appassionato. Non è irenica armonizzazione, non è moralismo: è lavoro (appunto, lavoro: cioè prova di realtà, di competenze e fatica, oltre che immaginazione) sulle relazioni, sulle loro forme; e su di sé, sulle rappresentazioni che si portano.
Nella esecuzione penale la convivenza che lavora alla giustizia sviluppa restrizione di libertà e di diritti e, insieme, attenzione e cura alle persone. Agli offensori come alle vittime. Almeno a questo dovrebbero dedicarsi gli operatori, i ruoli e le competenze (professionali, e volontarie), anche le risorse civili e sociali sensibili che si ritrovano nel lavoro della giustizia.
La società dei giusti e dei puri, la società “della colpa e del merito” lascia pochissimo spazio alla vita del legame e della responsabilità, all’assunzione personale della colpa, al riscatto ed alla generosità, alla riconciliazione. Si esce dalla colpa, allora, soltanto per via d’espiazione, comunque segnati. In una logica tutta restitutiva e di misurazioni. Ma lo squilibrio, la frattura, l’offesa restano: la ferita continuerà a lavorare nelle vite, sia che si sia vittime sia che si sia colpevoli.
È recupero d’umanità, invece, quello che si dà in una convivenza che chiede e offre di vivere incontri che riportino ad un senso di debito, in qualche modo originario, quello che può fare attenti all’altro, al sentire nel profondo l’altro. E, quindi, al sentire aperta sempre la propria avventura di ricerca della verità. Una linea di resistenza da rompere è proprio quella rappresentata dal cattivo uso del senso di colpa, da un malinteso modo di vivere il rapporto con la colpa nella nostra cultura, nella nostra società. Cui corrisponde un modo di vivere il credito (che si pensa di aver maturato) ed il diritto.
Fonti
- [1] P. Ricoeur, Il diritto di punire, (a cura di L. Alici), Morcelliana, Brescia, 2012
- [2] M. Schermi, Il lavoro della giustizia. Persone e comunità alle prese con deviazioni e composizioni dei legami, Castelvecchi, Roma, 2024
- [3] S. Weil, La persona e il sacro, Adelphi, Milano, 2012
- [4] L. F. Pizzolato, L’idea di amicizia nel mondo antico classico e cristiano, Einaudi, Torino, 1993