di Giulia Blasi. Pubblicato in Valigia blu il 27 settembre 2024.
Alcuni giorni fa, insieme al Decreto Sicurezza, la Lega è riuscita a far approvare un Ordine del giorno, a firma di Igor Iezzi, che impegna a istituire al più presto un tavolo tecnico per valutare il provvedimento della castrazione chimica per gli stupratori e per chi commette il reato di violenza sessuale.
Sarà bene spiegare cosa si intende per “castrazione chimica”. Il termine corretto è “blocco androgenico totale”, e descrive un tipo di terapia utilizzato nel trattamento del tumore della prostata, come spiega il sito dell’AIRC. Gli effetti collaterali di questo trattamento ormonale sono, fra gli altri: riduzione della libido, astenia, debolezza e perdita di massa muscolare. Gli stessi farmaci possono inoltre essere utilizzati nell’ambito delle cure per l’affermazione di genere delle persone trans assegnate alla nascita al genere maschile.
Il punto della riduzione della libido è quello che rende il blocco androgenico così popolare, perché richiama l’idea - tanto errata quanto pericolosa - che lo stupro abbia a che vedere con il desiderio, e non con una volontà di sopraffazione che funge da eccitante. Quella volontà rimane anche se manca la libido, perché ha a che vedere con la dominanza che sono elementi fondanti della maschilità tradizionale.
La libido non c’entra nulla con lo stupro. I farmaci utilizzati per il blocco androgenico possono inibire alcune funzioni sessuali, ma non eliminano il desiderio di sopraffazione. Un trattamento che miri a inibire la potenza virile rischia, in assenza di un adeguato sostegno terapeutico, di aumentare la frustrazione dell’uomo soggetto a questa misura e di spingerlo a incanalare il suo desiderio di affermazione in azioni ancora più violente. Un rischio che potrebbe diventare ancora più concreto se il trattamento dovesse essere imposto.
L’assenza di erezione non ha mai impedito a nessuno di compiere una violenza: alcuni stupratori agiscono, anzi, proprio a compensazione di una disfunzione sessuale, scaricando sulle vittime la “colpa” di non riuscire a rimediare al loro problema. Restano inoltre escluse le donne abusanti, che pur essendo poche (dal punto di vista statistico, la stragrande maggioranza degli abusi sessuali è compiuto da uomini) comunque esistono, e non potrebbero essere “disattivate” con farmaci mirati.
Posto che l’inasprimento delle pene non è per automatismo un deterrente dei reati, e che esistono motivi fondati per credere che nemmeno le pene in sé, inasprite o meno, riescano nel concreto a far desistere chi vuole commettere un reato, specialmente un reato violento, la “castrazione chimica” è particolarmente inutile sotto il profilo della prevenzione del reato, dato che sarebbe somministrata in presenza di una condanna, quindi di una pena detentiva. Se da un lato è vero che chi compie reati violenti ha un tasso di recidiva significativo (anche a causa dell’inefficienza del sistema penale nel recupero dei condannati), non è chiaro quando questa misura aggiuntiva dovrebbe essere comminata, e per quanto tempo dopo la scarcerazione. L’imposizione di un’ulteriore misura coercitiva, peraltro pensata per minare e compromettere l’integrità psicofisica del detenuto, è agita nello spirito della vendetta.
Il nostro ordinamento e la Costituzione dicono chiaramente che la pena detentiva dovrebbe avere un fine riabilitativo, ma basta scorrere i commenti a qualsiasi articolo o post di una testata giornalistica sui social che parli dello stato delle carceri italiane per essere investiti da un’ondata di malessere e di desiderio di rivalsa. Il cittadino comune pensa al detenuto sempre come a una persona violenta e pericolosa, per cui la pena detentiva non è sufficiente: chi ha sbagliato deve soffrire, deve essere umiliato, come ritorsione per il dolore che ha causato. A questo contribuisce non poco il sistema mediatico che ha sempre bisogno di nuovi mostri da sbattere in prima pagina, per alimentare la necessità del pubblico di avere un colpevole da odiare.
sintesi di Alessandro Bruni
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