di Gianni Balduzzi. Pubblicato in Linkiesta del 3 settembre 2024.
Storicamente il welfare italiano è sempre stato scarso rispetto a quello presente in altri Paesi dell’Europa occidentale, lo sappiamo, ma soprattutto è sempre stato squilibrato. Prima dell’arrivo del Reddito di Inclusione e poi del contestatissimo Reddito di Cittadinanza, lo scorso decennio, la quota di famiglie appartenenti al dieci per cento più ricco che riceveva una qualche forma di trasferimento era inferiore a quella riscontrabile tra chi faceva parte del terzo decile, quello di chi sta tra il venti e il trenta per cento più povero. Anzi, secondo una ricerca di Prometeia in tutto il ceto medio, anche nel segmento con il venti-trenta per cento più ricco, quanti beneficiavano di qualche sussidio, detrazione o pensione erano più numerosi che tra i più poveri.
Era l’effetto di un welfare basato quasi interamente sulle pensioni e sugli interventi fiscali, che, però, in quanto tali escludono gli incapienti, coloro che non hanno entrate da tassare, che non possono detrarre nulla perché non guadagnano.
Accanto alla cancellazione del Rdc e alla sua sostituzione con l’assegno di inclusione, che ha inciso molto, infatti, sono state varate alcune decontribuzioni e il parziale adeguamento delle pensioni all’inflazione, che, appunto, presuppongono che ci sia un lavoro o la percezione di un assegno pensionistico. In modo totalmente diverso, per esempio, è andata in Germania, dove sono stati coloro che fanno parte del dieci del venti per cento più povero a ricevere i trasferimenti più alti, in proporzione al reddito.
Tra i maggiori sussidi in Italia ce n’è uno solo che invece è chiaramente redistributivo e premia soprattutto i meno abbienti, è l’assegno unico e universale per i figli a carico. Sono i nuclei che hanno tra zero e diecimila e ottocentodieci euro di reddito Isee quelli che ricevono le somme maggiori, tra trecentottantadue e i trecentottantanove euro al mese. È ovvio che se il calcolo fosse in percentuale sulle entrate il segmento più povero sarebbe quello che incasserebbe di più. È del resto in queste due fasce di reddito che si trova il numero maggiore di figli beneficiari, sono 2,57 milioni in quella più bassa e 3,67 milioni nella seconda.
I più poveri, tra l’altro, sono quelli che mediamente hanno più figli, 1,74 contro gli 1,44 delle famiglie del segmento più ricco, ma non è solo per questo che ricevono di più. Anche l’assegno unico e universale calcolato per singolo figlio è maggiore nel loro caso, duecentoventisei euro per chi ha meno di cinquemila e quattrocentocinque euro di reddito Isee, contro i cinquantasette di chi ne ha più di quarantatremila e duecentoquaranta euro.
È chiarissima la sproporzione a favore di chi sta peggio, e non cambiano molto le cose le briciole date ai più ricchi, i figli dei quali che ricevono un quarto di quanto viene dato per quelli dei più poveri. È anche per questo, per i suoi effetti già chiaramente redistributivi, che il dibattito sull’assegno unico e universale rischia di essere piuttosto surreale, soprattutto visto che molti di coloro che lamentano l’incremento dei suoi costi si guardano bene dal mettere in discussione e dal parlare pubblicamente di «rimodulazione» delle pensioni, ovvero dello strumento di welfare invece più distorsivo.
La discussione intorno all’assegno unico universale dovrebbe vertere, piuttosto, sul contesto in cui viene applicato, sulla profonda crisi delle nascite su cui non riesce a incidere. In questo senso, alla luce dell’emergenza demografica, è anche piuttosto ridicolo fare distinzioni tra italiani, stranieri con una lunga residenza e quelli che sono da poco nel nostro Paese. Forse, però, anche tra coloro che amano parlare di natalità questa emergenza non viene realmente percepita come tale, visto che mostrerà i suoi effetti maggiori nel medio e lungo periodo e che quelli che già presenti sono ancora relativamente flebili, e quindi ignorabili. Quando saranno più evidenti forse sarà chiaro che quanto speso per l’assegno unico e per misure simili (si pensi agli asili nido) sarà stato tragicamente insufficiente.
sintesi di Alessandro Bruni
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