di Giuseppe Pontiggia. Ultime due pagine da Nati due volte, Mondadori, 2000.
Mi capita di vederlo a distanza, nella via lunga e stretta dove abito. Cammina lungo i muri delle case, per avere un appoggio, se incespica. L'andatura è sgraziata e, anziché seguire i comandi del corpo, sembra sfruttarne il peso, precipitandolo talora in avanti con accelerazioni improvvise.
Alcuni lo riconoscono e lo salutano. Lui si ferma con la schiena contro l'intonaco, sempre pronto a parlare con tutti. Intuisco che certi lo trattano come un bambino. Sono gli stessi che trattano i bambini come idioti e stabiliscono con loro, finalmente, un rapporto alla pari. Lui è in grado di dire cose che loro, probabilmente, non sanno neanche pensare, ma si limita a guardarli, mentre bamboleggiano, con il suo sorriso mite.
Chi lo vede per la prima volta spesso non se ne accontenta. Si ferma e si volta a guardarlo. Lui se ne accorge e ho l'impressione che arranchi con una smorfia di sofferenza. Ma forse non è così, lui bada solo a non cadere, è abituato a essere osservato, sono io che non mi rassegno. Ho una smorfia di sofferenza ed è quello che ci unisce, a distanza.
Altre volte ho provato a chiudere un attimo gli occhi e a riaprirli. Chi è quel ragazzo che cammina oscillando lungo il muro? Lo vedo per la prima volta, è un disabile. Penso a quella che sarebbe stata la mia vita senza lui. No, non ci riesco. Possiamo immaginare tante vite, ma non rinunciare alla nostra.
Una volta, mentre lo guardavo come se lui fosse un altro e io un altro, mi ha salutato. Sorrideva e si è appoggiato contro il muro. E' stato come se ci fossimo incontrati per sempre, per un attimo.