di Enzo Bianchi. Pubblicato nel blog dell'autore il 30 settembre 2024.
Prima di organizzare dibattiti e confronti su un tema oggi evocato con frequenza come quello della “fragilità”, occorrerebbe fare con intelligenza una distinzione tra fragilità, debolezza, vulnerabilità e imperfezione. Altrimenti si fa confusione e non si accede a una consapevolezza che aiuti il nostro cammino di crescita umana.
Certamente viviamo in un contesto di relativismo, di oblio delle esigenze morali e di fuga dalla fatica che incoraggia una certa inerzia e che non può non diventare debolezza spirituale. Anche la crescita delle ansie esistenziali e delle paure di fronte alla vita stessa, al futuro, alla morte, al fallimento, hanno alimentato un clima di depressione che porta a rimuovere le virtù da conseguirsi con fatica, mentre incoraggia la fragilità. Vulnerabili siamo tutti noi in quanto esseri umani: ma la fragilità è altra cosa e non va confusa!
“Vulnerabilità” significa capacità di essere feriti, apertura ed esposizione all’altro: l’altro che ci sta davanti e ci mostra il volto con le sue ferite e il suo pianto ferisce anche noi, ci fa soffrire e ci porta alla compassione, al “soffrire insieme”. Essere vulnerabili è una grande possibilità di comunione anche perché la vulnerabilità non solo non esclude la fortezza, ma può incitarci all’acquisizione di questa virtù, tanto necessaria per poter aiutare con responsabilità e intelligenza l’altro che soffre.
La fragilità invece è il male che ci coglie a causa della vita, della malattia, delle vicende del mondo. Dalla fragilità vorremmo “essere liberati” perché è un impedimento alla pienezza della nostra vita.
Oggi c’è un elogio della fragilità che è insensato. Viene fatto da impotenti e inerti, ma va giudicato con chiarezza come giustificazione di una vita nella quale si rifiuta la fortezza per un equivoco: la fortezza infatti non è violenza, non è un vile prevalere sugli altri, ma è capacità di resistenza, di saldezza, di resilienza, di pazienza, di makrotymía, capacità di continuare a pensare in grande e a vedere in grande.
Per questo le persone fragili sono riconosciute da chi sa di essere fragile e sono conosciute nel faccia a faccia, guardandosi negli occhi, nel mettere la mano nella mano, nell’abbracciarsi. Abbracciare un corpo deforme o malato, dare la mano a un mendicante, dare un bacio a un povero, accogliere un viandante in casa, è vivere la beatitudine di chi riconosce e discerne l’uomo fragile, dicono i salmi nella Bibbia.
E infine possiamo dire che la debolezza è una consapevolezza spirituale della nostra situazione: siamo sempre deboli, ma è vero che in certi momenti sprofondiamo in una debolezza che rasenta la morte. Nonostante la lotta contro la tentazione cadiamo nel compiere il male, falliamo nel fare il bene, contraddiciamo l’amore.
Gregorio Magno dice che se non fossimo deboli e soggetti a cadute e a fallimenti nella vita penseremmo che il bene che facciamo viene da noi e non da Dio. E arriva a dire con molta audacia che i peccati che facciamo, soprattutto quelli impuri, sono un rimedio all’orgoglio. Ma è il grande san Bernardo che dopo una vita in cui comandava al papa e ai re vive una crisi profonda: esce dal monastero e va a vivere da solo, in una capanna nella foresta. E qui confessa a causa dei suoi peccati il fallimento della sua vita da monaco, il fallimento del cammino verso la santità che si era prefisso. Ne esce come un uomo spogliato e canta: O optanda infirmitas! O beata desiderabile debolezza!