di Cecilia Attanasio Ghezzi, giornalista. Pubblicato in Internazionale del 16 ottobre 2024.
Ci hanno insegnato l’importanza della contraccezione, ma non ci hanno spiegato che a 37 anni la fertilità di una donna diminuisce drammaticamente e un giovane su tre è a rischio infertilità. In Italia una coppia su cinque non riesce ad avere figli naturalmente, circa il doppio rispetto ad appena vent’anni fa. Ma non se ne parla. Così quando viviamo questa situazione sulla nostra pelle, ci coglie un misto di incredulità, negazione, vergogna. Ci si sente soli e sbagliati, si spera nel miracolo e, quando finalmente si accetta l’infertilità come una malattia e si ricorre alla medicina per curarla, lo si fa con pudore e rabbia. È un tabù, una questione privata, secondo molti. Ma, come avremmo dovuto imparare dalle femministe degli anni settanta, “il personale è politico”, sempre. E lo dimostrano i numeri.
Sul sito dell’Istituto superiore di sanità c’è il registro nazionale della procreazione medicalmente assistita (pma), che tiene meticolosamente i conti: negli ultimi vent’anni quasi 220mila bambini sono nati grazie a queste tecniche. L’Iss calcola che in dieci anni l’utilizzo di questa tecnica è passato dallo 0,3 al 13,8 per cento sul totale dei cicli di pma effettuati. Con percentuali di successo sempre più alte.
“La genitorialità è una relazione dal punto di vista psicologico, non c’entra niente con il dna”, dice Valentina Berruti, psicologa e psicoterapeuta che dal 2014 si occupa soprattutto di sostegno alle coppie che non riescono ad avere figli. “Le famiglie omogenitoriali si esercitano sulla narrazione delle origini fin da subito e le ricerche sui loro figli ci dimostrano che non soffrono di alcun trauma nel sapere di essere nati da uno o due gameti donati. Perché dovrebbe essere diverso per i figli degli eterosessuali?
Nelle relazioni è il segreto che impone una distanza difficile da colmare, e il segreto in questo caso è spia del fatto che non si è stati in grado di elaborare il lutto biologico. In poche parole si prova un senso di inadeguatezza e di vergogna per non avere potuto generare un figlio con il proprio patrimonio genetico”.
Dico a Berruti che ho avuto difficoltà a trovare coppie etero disposte a farsi intervistare sul tema. Le poche con cui ho parlato non hanno alcuna intenzione di affrontare pubblicamente l’argomento e, almeno per il momento, ai loro figli non hanno detto nulla. La psicologa non si stupisce. Secondo lei hanno più problemi a confrontarsi con questo tema perché sono meno abituate a gestire e accettare la propria diversità. Non c’è nulla di male nel nascere in un modo diverso”.
In Italia, in assenza di leggi specifiche, non è facile trovare il giusto equilibrio tra i diritti dei genitori che scelgono di tutelare il proprio nucleo familiare anche attraverso l’omissione di un’informazione, quelli dei figli a conoscere le proprie origini e quelli dei donatori a cui è stato garantito l’anonimato.
Secondo Berruti, “il modo in cui siamo nati definisce la nostra identità e allenarsi a raccontarlo ci insegna ad accettarla. Dobbiamo saper accettare il fatto che i nostri figli potranno non esserne contenti, esattamente come non lo saranno di tante altre scelte che abbiamo fatto per loro. La genitorialità è costituita principalmente da quattro ingredienti: il desiderio di avere un figlio, l’intenzione di farlo, la dedizione che gli si offre e la capacità di instaurare una relazione. Con la genetica non c’entra proprio nulla”.
sintesi di Alessandro Bruni
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