di Alessandro Bosi. Pubblicato in ytali con il titolo Esterrefatti e assuefatti il 3 ottobre 2024.
Nella lectio magistralis tenuta a maggio all’Università di Foggia, Mauro Ceruti ha proposto un bilancio della ricerca iniziata quarant’anni fa con Gianluca Bocchi sulla «Sfida della Complessità».
Avendo sottolineato la solida identità tra scopo pedagogico e filosofia nell’antica Grecia, Ceruti ha scandito i sei requisiti della nuova paideia che corrispondono alle esigenze maturate da quando siamo entrati «nel giro di boa dei cinque secoli di planetarizzazione dell’umanità». Collocato in questo arco di tempo, il garbuglio della complessità non può essere scambiato col singhiozzo d’una stagione corridora che scappa via senza lasciarci il tempo per riordinare la casa dopo averla messa sottosopra. La sfida alla complessità nella modernità rientra nel «processo di ominazione» col quale Homo sapiens «si è compiuto in una specie incompiuta».
Una storia che «non è stata il dispiegamento di un destino già dato, bensì il teatro in cui si è svolta una creazione [di] diverse forme di umanità». Ma, incapace di misurarsi con «l’unitas multiplex» di un'umanità che in realtà non c’è mai stata, l’età moderna, uscita dal Medioevo, se lo è trovato difronte, vivo più che mai e impegnato a ostentare, da una parte all’altra del mondo, la sua stabilità millenaria, così da mettere alla berlina la nostra malvissuta fluidità; quel che è peggio, per sbeffeggiarci con i suoi modi di apparecchiare quel futuro che eravamo persuasi di saper controllare, attrezzati come siamo nella misura, nel calcolo e nella previsione imparati durante l’illuminismo che diradò l’oscurità d’un passato dal quale eravamo determinati a allontanarci quanto più possibile rapidamente.
Gli effetti della corrosione praticati dal Medioevo presente&futuro sono così vistosi da imporre la riflessione sul processo che ci ha immessi nel mondo globale, connesso e interdipendente, caratterizzato – dice Ceruti – da «una circolarità continua, in cui tutto è sia causa che effetto». Così ci accade di assistere al riverbero che il battito d’ali d’una farfalla «può avere […] sul ‘tempo’ che farà nel mondo intero, pochi giorni dopo» come se, l’interdipendenza fra tempo e spazio potessimo vederla alla moviola. La loro intima relazione, che ci permette di cogliere il micro nel macro, è divenuta evidente attraverso una serie di acquisizioni guadagnate nei cinque secoli di storia passata.
Se la storia dell’universo procede da un evento, e non è già data dall’eternità, possiamo ammettere che quell’evento, dopo aver scatenato l’universo, potrebbe ripetersi, e concretamente si ripete, sulla Terra diventata «un unico sistema dinamico complesso, autoregolato, con componenti fisiche, chimiche, biologiche e anche umane: perché l’umanità è diventata una grande forza della natura»? Il battito d’ali d’una farfalla, il canto delle cicale o il silenzio delle lucciole, ci interrogano sulla nostra esistenza e corresponsabilità nei modi d’intervenire su questo ordine, di amplificare a dismisura le catastrofi, perfino di provocarle. Potrebbe crollare, per gli effetti degli sconvolgimenti climatici, quel che non avessimo costruito? Il costruito, il nostro modo d’essere nel costruire e nel fruire del costruito, crediamo che sia minuscola cosa per un Mondo esteso, solido e refrattario alle pretese di qualsiasi vivente gli capiti momentaneamente tra i piedi?
Difronte a questa complessità, che si oppone alla pretesa linearità di fatti, Ceruti invoca una nuova paideia per una «comunità di destino planetaria» che, come dicevo, prospetta attraverso sei requisiti. Sintetizzandone il pensiero, la nuova paideia dovrà aiutarci a) a«comprendere che sapere è entrare nel movimento delle cose»; b) a esercitare una visione coerente con la «relazione cosmo-antropologica in cui l’uomo non è separabile dalla natura» essendo parte del suo «processo di co-evoluzione»; c) a concepire la scienza e la tecnica come «strumenti per costruire un’alleanza con la natura»; d) a riconoscere che il «rapporto coevolutivo con tutti gli attori del mondo, viventi e non viventi» è precondizione della nostra sopravvivenza; e) a riconoscere «l’indivisibilità terrestre, biologica, psichica, sociale, culturale, spirituale della vita umana»; f) a riconoscere «l’indivisibilità e nello stesso tempo la pluralità dell’umanità».
Una paideia, come si vede, declinata sulla conoscenza, sulla capacità di elaborare una visione delle cose e riconoscere quel che si è misconosciuto. Come dire che, col riprodursi all’infinito della sua tecnicalità, nell’educare viene meno quel che qualifica il rapporto paidetico così da privilegiare le abilità nell’educare e nell’apprendere.
In breve l’educare rientra nelle leggi e nei commerci del moderno che non si ammette o dismette volendolo. A ogni svolta della storia, a ogni cambio nei paradigmi della conoscenza, gli orizzonti si ampliano e i nostri occhi vedono in modo diversificato quel che il nostro cuore, grondante di sentimenti, teme si stia frantumando. Così il compito dell’e-ducere si direbbe sia proprio quello di condurre alla luce, di chiarire dissipando le tenebre. Ma nel loro procedere, le nostre conoscenze e la scienza stessa non fanno luce più di quanto non aumentino il buio. Non è forse vero che ogni nuova conoscenza chiama a raccolta, dai lidi più lontani, cose sconosciute e, spesso, insospettate? Ogni fiammella di conoscenza getta un’ombra nella quale s’intravedono i lineamenti d’interi continenti sconosciuti e da visitare.
È condivisibile la preoccupazione di Ceruti per una scuola – aggiungo un’università, ma anche un’editoria, scolastica e universitaria – che attendono alla semplificazione nel mentre si consegnano al fascino del multiplex e trascurano la ricerca della relazione con l’unitas per offrire una varietà con la quale si apre la rincorsa a una competizione senza regole mentre a tutti sottrae la complessità.
La «costruzione di una “civiltà” della Terra» reclama una nuova paideia che dovrà tenere insieme il valore formativo dell’agire educativo con l’uso delle conoscenze nel loro portato storico. L’agire educativo non è confinabile in un’istituzione educativa e neppure nell’insieme del sistema educativo che raccoglie tutte le istituzioni con esplicite finalità educative. La nostra epoca lo testimonia: avendo alle spalle il secolo che, più d’ogni altro, ha conosciuto il progresso e scolarizzato persone, ci ha immesso nella catastrofe che viviamo, esterrefatti e assuefatti, nel sapere come si consuma più mondo di quanto ne sappiamo rigenerare.
Non serve dunque mettere mano a un di più di scuola e di insegnanti.
È la delega educativa che va ripensata e con essa il patto tra delegante e delegato che preveda un agire educativo orientato a promuovere il valore formativo del gesto, della parola, del sentimento. Non può esistere, nell’agire educativo, divaricazione tra un insegnamento formativo “liceale” depositato in alcune discipline e un insegnamento “tecnico” o “professionalizzante” votato alla ripetitività meccanica e senza la conoscenza della logica che presiede a quanto si impara.
A un secolo di distanza dalla riforma Gentile non abbiamo saputo rispondere alla soddisfazione con la quale Mussolini la salutava come la più fascista delle leggi. Non abbiamo ridotto la divaricazione tra liceo formativo e istituti professionalizzanti perché, all’opposto, abbiamo proceduto nel divaricare la funzione del dialogo paidetico dalla necessaria istruzione tecnica. Questo si è potuto fare anche attraverso una parvenza di licealizzazione degli istituti tecnici. In realtà, la tecnicalità è progredita in ogni ambito a scapito del dialogo paidetico. A un secolo di distanza da Gentile e a quarant’anni di distanza dalla complessità di Ceruti, l’edulcorazione della complessità, nella scuola e nell’Università, balza agli occhi nel bignaminismo dilagante dell’editoria scolastica.
sintesi di Alessandro Bruni
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