di Margherita Saraceno. Unipv. Pubblicato in Salute internazionale il 7 ottobre 2024.
Seppure la violenza domestica riguardi moltissime donne, solo una parte marginale dei casi viene denunciata o intercettata da professionisti e servizi specializzati. I medici di famiglia potrebbero avere un importante ruolo di “sentinella” del fenomeno.
La violenza domestica (da intendersi in senso lato come violenza nell’ambito di relazioni o ex relazioni nella sfera intima o familiare) non rappresenta soltanto un tema di tutela dei diritti, ma è anche un problema pervasivo di salute pubblica, associandosi peraltro con rilevanti comorbidità (violenza domestica e abuso di sostanze, disabilità fisica e psichica, anziani non autosufficienti, etc.). La letteratura empirica ha inoltre descritto il peggioramento sistematico della violenza domestica durante conflitti, pandemie (inclusa la pandemia Covid-19) e disastri naturali.
In Italia, la violenza domestica è fenomeno rilevante per incidenza e portata, e risulta trasversale sotto il profilo demografico e socioeconomico, con importanti effetti sociali e di salute pubblica. Sul punto basta guardare i dati relativi ad accessi al pronto soccorso e ricoveri di pazienti femmine per violenza, i dati del Ministero degli Interni relativi ai reati-spia della violenza di genere, e le varie indagini ISTAT sul fenomeno.
Il quadro generale è ben sintetizzato da ISTAT, secondo cui, in Italia, il 31,5% delle 16-70enni (6 milioni 788 mila) ha subìto nel corso della propria vita una qualche forma di violenza fisica o sessuale, il 13,6% delle donne in Italia (2 milioni 800 mila) l’ha subita da parte del partner o dell’ex partner, il 26,4% delle donne ha subito volenza psicologica o economica da parte del partner attuale e il 46,1% da parte di un ex partner.
Seppure il fenomeno riguardi molte (il 90% delle vittime di violenza domestica è di sesso femminile), solo una parte marginale dei casi viene denunciata o intercettata da professionisti e servizi specializzati: secondo l’Agenzia UE per i diritti fondamentali, solo il 22% delle vittime denuncia e solo il 20% delle vittime cerca un aiuto qualificato. In generale, l’emersione del fenomeno è lasciata alla (faticosa e difficile) iniziativa individuale, e comunque risulta poco supportata dai servizi sul territorio.
Infatti, in Italia, se un caso arriva all’attenzione dei centri antiviolenza (CAV), nel 44,3% dei casi vi arriva per iniziativa della vittima stessa o di amici o parenti. Altrimenti, le vittime che arrivano ai CAV sono inviate da forze dell’ordine e sociali (24,9%). I PS e gli ospedali inviano il 4,8% dei casi che giungono ai CAV.
Se invece guardiamo agli invii da parte di medici del territorio, osserviamo che solo 0.9 donne su 100 inviate ai CAV sono state indirizzata dal medico di famiglia o dal pediatra. In generale, i casi di violenza domestica tendono a rimanere sommersi esacerbandosi nel tempo con un aggravarsi di conseguenze e rischi per le vittime (secondo il ben noto ciclo della violenza di Walker), questo perché tipicamente le vittime non denunciano e chi ha rapporti di fiducia e confidenziali con le vittime (inclusi i medici o gli insegnanti) non riconosce il problema o, seppur a conoscenza della violenza, non agisce. Secondo un’indagine Eurobarometro del 2016, solo il 12% degli intervistati a conoscenza di casi di violenza domestica si sono rivolti alla polizia; l’EIGE riferisce che il 71,5% delle persone a conoscenza di casi non ha mai denunciato.
L’auspicio, attraverso sia ad una diffusa adozione dei moduli e delle procedure sia alla formazione, è quello di rendere più semplice ed efficace il lavoro dei medici di base nel riconoscere e intercettare i casi di violenza domestica, rendendo così fattuale il potenziale incredibile della medicina territoriale come presidio antiviolenza.
sintesi di Alessandro Bruni
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