a cura di Alessandro Bruni. Raccolta di opere sul fine vita e la morte
Sulla morte tra riconoscimento e negazione
di Alessandro Bruni. Tratto ed elaborato da Librinews e da Fondazione Hospice Trentino.
Riferendosi alla medicina moderna, si parla spesso di “negazione della morte”, indicando con ciò quello che è percepito come la difficoltà, per una medicina che si vuole performante, di affrontare il limite della morte, vissuta come uno scacco. Si vuole cioè sottolineare la difficoltà di stabilire un rapporto sereno con la mortalità umana.
Ciononostante, l’ipotesi che noi difenderemo consisterà non tanto nel mettere in causa un comportamento giudicato negativamente, quanto nel dimostrare perché queste difficoltà esistono. Mostreremo in particolare che, come ogni attività attraversata dalla tecnica, la medicina moderna deve inventare nuovamente il rapporto dell’uomo con se stesso.
Essendo, come è noto, il rapporto dell’uomo con la propria morte uno dei requisiti che caratterizzano maggiormente le culture, ed essendo la morte dell’uomo moderno sempre più medicalizzata, la medicina si trova nella condizione di contribuire a questa invenzione culturale. La questione è dunque misurare i rischi, ma anche le opportunità, della medicalizzazione della morte.
Pur rappresentando un elemento essenziale per la definizione stessa della vita, la morte rappresenta un incontro traumatico, difficile da approcciare (in prima persona, o nei confronti di persone care in condizioni terminali), da affrontare, e da superare.
Il nostro rapporto con la morte alterna riconoscimento e negazione. Per quanto la morte sia tutto attorno a noi, quando incombe o sopraggiunge nella nostra vita è facile sentirsi impreparati. Il tema della morte corre spesso sotterraneo durante l’esistenza, almeno finché non si vive sulla propria pelle il dolore del lutto o lo spavento di una morte scampata.
Argomento di riflessione da sempre presente in ogni civiltà e in ogni tempo, è tema capace di disvelare grandi verità sulla vita, sulla società, sul destino dell’uomo. La tendenza propria della nostra società, come di molte altre, è quella di evitare il tema, considerato difficile, soprattutto quando sono coinvolti dei giovani, oppure scomodo.
Eppure riflettere sulla morte può aiutare (anche in maniera importante) ad attribuire il giusto peso alla vita, senza considerare quanto doloroso può risultare l’esperire un lutto senza essere minimamente preparati al concetto della fine.
È vero che tutti dobbiamo morire?
di Chiara Zannini. Presidente cooperativa sociale Riabilitare, Ferrara. Tratto da Madrugada 120, dicembre 2020.
La nostra vita sta tra due battaglie: la prima è un travaglio che porta al primo inspiro, la seconda è l’agonia che porta all’ultimo espiro. La prima inspirazione è un gesto di straordinaria forza vitale, che avviene in una manciata di secondi, per consentire ai polmoni del feto di svuotarsi del liquido che li riempiva durante la gestazione e di inondarsi di aria. Si tratta di un processo critico e a rischio elevato (nell’1-2 % di casi richiede l’intervento della terapia intensiva neonatale) dovuto alla sinergia tra le stimolazioni alla gabbia toracica indotte dalle contrazioni dell’utero della madre e un tempistico rilascio di adrenalina da parte del feto, che solo allora diventa neonato. L’ultima espirazione è un afflato lieve dopo una battaglia affannosa, anch’essa espressione di una straordinaria forza, che accompagna il progressivo spegnersi delle funzioni vitali fino all’abbandono, alla resa. In mezzo, una successione binaria di sei milioni di cicli di inspiro ed espiro a scandire il ritmo talvolta irregolare del nostro vivere.
Se guardassimo le cose dal punto di vista di una guerra, la prima battaglia ha buone probabilità di concludersi con la vittoria, la seconda è sempre una sconfitta: «finisce che poi un giorno una lucertola prende il sole sulla tua lapide» (tagliente sintesi della storia scritta da Franco Arminio in Cartoline dai morti). In realtà non sappiamo come stanno effettivamente le cose, si tratta davvero di una battaglia vinta e di una guerra persa? Ci interroghiamo da millenni e non abbiamo mai trovato una risposta a questa domanda. Tutta la filosofia nasce da questo interrogativo ma mi piace umilmente pensarla con Heidegger, secondo il quale il nostro esserci dalla nascita acquista autenticità solo quando lo rapportiamo alla sua finitezza, ovvero scegliamo di esserci per la morte.
Una finitezza che confina da un lato e dall’altro con i bordi dell’abisso, dove la vertigine di questo affaccio è un motore o un inibitore potente per ogni nato.
Il ritorno della grande assente
Quando la redazione mi ha chiesto di occuparmi della cura di questo monografico credo tuttavia che il mio cuore abbia avuto un sussulto e, troppo forte è il tema, uno dei miei milioni di inspiri si sia bloccato, forse, per qualche istante.
Tra quell’inspiro sospeso e me che scrivo si è inserita una pandemia che ha sospeso anche lo scorrere dei nostri giorni durante i lunghi mesi del confinamento e bruciato i polmoni, a oggi, di più di un milione di persone, mentre 37 milioni ne ha infettate con sintomi gravi, moderati, lievi, senza sintomi… In una macabra danza che ha colpito umili e potenti, che ha cambiato il nostro lessico intridendolo di metafore belliche, che ha travolto abitudini e con esse la percezione del presente e del futuro, la pandemia della Covid-19 ha rimesso al centro della scena un’attrice che giocava un ruolo apparente di non protagonista: la morte, la grande assente dal nostro tempo per come lo abbiamo conosciuto.
Nei mesi di marzo e aprile del 2020, la morte in solitudine nelle terapie intensive intasate da una moltitudine, i cortei di mezzi militari con il loro carico di salme diretti a luoghi lontani per la cremazione, lo strazio dei familiari privati della possibilità di un ultimo saluto, la temporanea abolizione del rito funebre… sono stati uno shock improvviso da cui stentiamo a riprenderci nell’incertezza di quello che potrà avvenire nei prossimi mesi, o anni.
E se questo shock catalizzasse una nuova consapevolezza che credevamo perduta? Non mi sento una fautrice dell’andrà-tutto-bene, abbiamo le prove da quelle aride cifre che non è andata così.
Eppure, la costernazione e lo scandalo, in parte ipocrita, che hanno accompagnato quei morti dai polmoni bruciati alla ricerca di una sepoltura, risuonano come un improvviso dissotterramento del rimosso legato al pensiero e al rapporto con la morte che, quello sì, che giaceva sepolto. La rimozione è, come sappiamo, un fenomeno psichico ma anche storico e sociale causato dalla scissione di contenuti incompatibili e inammissibili alla coscienza.
È vero che tutti dobbiamo morire?
Il mio primo ricordo di infanzia si lega all’incontro con la morte. Ero troppo piccola per sapere che era morto il nonno o per comprendere il significato del verbo “morire” ma, mentre saltavo da un letto all’altro nella grande camera dei bambini, sentii mio fratello maggiore chiedere alla mamma: è vero che tutti dobbiamo morire? Non ricordo la risposta ma solo che smisi di saltare. Anni dopo, appena adolescente, vissi con la morte di mia nonna Elisa il mio primo grande lutto. Ricordo un dolore immenso che non poteva esprimersi. Eravamo tutti chiusi, noi fratelli che questa nonna avevamo adorato, ognuno nella sua bolla. Dopo il funerale, la cena con i parenti più stretti, tutti attorno a un grande tavolo, fu un momento di grande sollievo. Parlammo di lei con dolcezza, con nostalgia ma anche con serenità, come se l’essere lì tutti insieme per lei consentisse di aprirci l’uno con l’altro e di sciogliere il nodo stretto del dolore che da giorni ci attanagliava.
Il giorno dopo andai in libreria e comprai un libro che lessi d’un fiato: Scommessa sulla morte, non proprio un romanzo da adolescente. Mi aprì gli occhi sul dramma del rimosso, sul tabù della morte e le sue dolorose implicazioni, e da lì mi incuriosii degli studi di Elisabeth Kübler-Ross sulla morte e il morire. Quelle letture mi aiutarono allora a vivere il mio primo lutto e anche i lutti successivi e mi aiutano tuttora a cercare di non sottrarmi allo sguardo di Medusa: i due volti della morte, la mia, quella che avevo intravisto la prima volta tra i 2 e i 3 anni di età, e quella dell’Altro, che avevo incontrato la prima volta nel primo lutto di quindicenne. Quando, ero già adulta, morì mio padre, non ebbi paura di portare mio figlio di otto anni in camera ardente e ho nitida l’immagine di lui accanto al suo corpo, in piedi con la schiena diritta, irremovibile come un soldato di guardia fino a quando la fiamma ossidrica non saldò la chiusura della bara. Sono sicura di non aver fatto un torto né a mio figlio né a mio padre.
Prendersi cura è una continua rinascita
Quelle letture precoci e un po’ irrituali per un’adolescente, sono state l’imprinting che mi porta oggi a intendere l’espressione “fine vita” nel suo senso letterale, come un percorso, mio e dell’altro, verso la morte e non necessariamente come una delle due opzioni nel codice binario «eutanasia sì / eutanasia no». Mi indirizzano probabilmente tuttora nella mia professione a dare un senso al percorso di riabilitazione rivolto a persone affette da una patologia neurodegenerativa spietata come la SLA di cui la mia cooperativa, fra altre cose, si occupa.
Ci sono malattie che non si possono guarire ma (solo) curare e, anche nel caso di prognosi apparentemente senza speranza, prendersi cura è un atto relazionale e generativo di portata immensa, una faticosa continua rinascita che richiede una sinergia fra l’io che cura e il tu che vieni curato.
Rassegna di libri sul fine vita e la morte a cura di Alessandro Bruni
Primo libro. Come vapore. Saggio sulla morte libera di Paulina Szczepańczyk, Edisioni Alpes, 2021
Il 1/05/1947 Evelyn Francis McHale si gettò dall’ 86° piano dell’Empire State Building di New York: l’impatto del corpo sull’automobile ne sfondò il tetto, frantumando i finestrini. Invece il corpo della donna, appena sgualcito, sembrava coricato in un sonno senza respiro in un’angelica compostezza. L’autrice si occupa delle condotte suicidarie che nascono da una “consapevolezza” e da una scelta che si inserisce in un processo che coinvolge la personalità nel suo complesso. Come scrive questo libro «ha la finalità di parlare di suicidio e della sua relazione con le esperienze distruttive, alcune delle quali finiranno per condizionare la creatività, diventando così un fattore protettivo alla vita umana». La sua riflessione è centrata sui processi psicodinamici e sulla terapia esistenziale, sottolineando come esista una continuità fra i dolori di ogni vita e quella quantità eccessiva che avvia il processo che può condurre alla tentazione, quanto non all’attuazione, di un comportamento suicidario. Il lettore si interrogherà sul senso della morte attraverso un profilo storico e artistico dei grandi geni arrivando a capire che il suicidio può diventare una scelta razionale.
Secondo libro. Saper accompagnare. Aiutare gli altri e se stessi ad affrontare la morte di Frank Ostaseski Mondadori, 2023
Un testo che vuole essere una profonda riflessione su un tema scomodo e ineludibile come la scomparsa di una persona cara. Ostaseki parla della morte come di un momento di enorme valore psicologico, emotivo, spirituale, un momento di passaggio. Spiega come il rapporto con la morte dipenda da quello con il dolore, con se stessi, con i cari e con la propria concezione di divinità. Ostaseski fonde la critica buddhista e le moderne cure palliative nei suoi “hospice” strutture di accoglienza per malati terminali e i loro familiari: la sua esperienza é alla base di questo libro, uno spunto di riflessione per tutti, laici e credenti, su un tema difficile che l’autore vuole insegnare ad affrontare con serenità e compassione verso il prossimo.
Terzo libro. Ciò che la morte e il morire ci insegnano sulla vita e sul vivere di Elisabeth Kübler-Ross, David A. Kessler, L'Età dell'Acquario, 2019
E' davvero questo il modo in cui voglio vivere la mia vita? Questa è la domanda centrale, l’unica veramente essenziale per riconoscere gli aspetti più autentici della nostra esistenza, quelli che conferiscono un senso alla nostra permanenza nel mondo. In un’esposizione accessibile e coinvolgente e attraverso l’esame di situazioni da loro vissute, i due autori ci comunicano le idee e le conclusioni a cui sono arrivati dopo anni di lavoro a fianco dei malati terminali. La vita è un percorso di crescita interiore in cui lentamente, anche attraverso esperienze traumatiche, facciamo affiorare la parte migliore di noi. Per percorrerlo è però necessario un atteggiamento di apertura nei confronti delle lezioni che la vita ci offre sull’amore, la paura, la perdita e il lutto, il tempo, le relazioni con gli altri. Tra tutte, quella sulla morte è forse la più importante, perché se vogliamo crescere dobbiamo accettare la nostra mortalità come un tratto essenziale del nostro essere, che dà spessore e significato alla nostra esistenza.
Quarto libro. L’uomo e la morte di Edgar Morin, Il Margine (Trento), 2021
Questo libro, ormai un classico, costituisce un unicum nella storia del pensiero poiché non è soltanto una summa di quanto sia stato detto, pensato e pubblicato sulla morte, ma è anche un orizzonte capace di ridare alla luce una consapevolezza e una sensibilità moribonde, ai giorni nostri ancor più di quando il libro era stato scritto. L’idea della morte ha subito un processo di rimozione coatta. Tutto quanto non risulti tangibilmente fruttuoso per il godimento immediato o per la realizzazione di una carriera viene rimandato al mittente, tutto e specialmente la morte. Il problema è che rinunciando alla riflessione non si riesce a bandire sul serio il punto di approdo di ogni vita e così la morte, a cui si sbatte in faccia la porta, ritorna attraverso le finestre della nostra disattenzione o penetrando nelle fessure di tutta la nostra vita interiore creando un vertiginoso sperdimento che ci spinge nelle direzioni più svariate alla ricerca di una pacificazione che né gli “esperti” né i guru sanno dare.
Quinto libro. La morte di Vladimir Jankélévitch, Einaudi, 2009
Cos’è la morte – la morte di tutti e di ciascuno, la morte di sempre e quella marcata dai segni inquietanti del nostro tempo? Come penetrare in un evento tanto decisivo da incidere in profondo la nostra esistenza eppure tanto opaco da mettere in scacco ogni sapere volto a rappresentarlo? Sono queste le domande, brucianti ed estreme, che alla fine degli anni Cinquanta, a pochi anni dalla più grande apocalisse dell’epoca moderna, si poneva Vladimir Jankélévitch in un libro che giustamente Lévinas ebbe a definire “sconvolgente”. Sconvolgente per la radicalità con cui egli decostruisce tutti i dispositivi immunitari elaborati dal sapere occidentale nei confronti dell’Irriducibile; ma anche per l’acutezza di uno sguardo, affilato e obliquo, che taglia in maniera trasversale le grandi interrogazioni sulla morte, all’epoca affrontate da Heidegger e da Freud, da Blanchot e da Foucault, ma già prima da scrittori come Tolstoj e Rilke. All’interno di un grande scenario teorico, che spazia dall’antichità ai nostri giorni, la riflessione jankélévitchiana rivela una sorprendente attualità.
Sesto libro. Saper morire. Cosa possiamo fare, come possiamo prepararci di Gian Domenico Borasio, Bollati Boringhieri, 2015
Molte persone, anche colte e brillanti, dinanzi alla morte si comportano in maniera inspiegabilmente irrazionale, finendo per causare a sé e agli altri sofferenze inutili e ampiamente evitabili. Da un lato, è una questione di ignoranza: sulla morte scrivono molto i filosofi, i bioeticisti o i religiosi, ma raramente si sente la voce dei medici, che senza dubbio sono coloro che la conoscono meglio. Dall’altro lato, è una questione di paura, di invincibile paura, e si sa che la paura è una cattiva consigliera. Alla paura di non esistere più, si aggiunge spesso, anche più forte, la paura di soffrire, ed è questo che rende il libro che tenete tra le mani un rassicurante e necessario testo di riferimento, speciale, utile e unico. Gian Domenico Borasio è uno dei maggiori esperti europei di cure palliative e ha un messaggio importante per tutti noi: sapendola gestire, nella grande maggioranza dei casi la morte non è dolorosa, e per i casi in cui lo sarebbe, ci sono risorse mediche adeguate che possono essere usate con successo.
Settimo libro. Dissertazione filosofica sul fine vita di Alberto Radicati (1698-1737). Filosofo. Il saggiatore, 2023.
Nell’ottobre 1732, l’editore William Mears dà alle stampe un libretto controverso, che sarà subito giudicato dai suoi primi lettori tra «i più empi e immorali mai letti». In quelle pagine si rivendicava infatti, con lucide argomentazioni, il diritto inalienabile di ogni individuo al suicidio e all’eutanasia: affermazioni inaccettabili e irricevibili per la popolazione cristiana europea di allora. Empio e immorale era ritenuto d’altronde anche il suo autore, il conte Alberto Radicati di Passerano, anticlericale piemontese esule in Inghilterra, che per quell’opera sarà arrestato insieme all’editore, terminando poi i suoi giorni in disgrazia.
Ci sarebbero voluti due secoli perché la fama del conte Radicati e del suo scandaloso pamphlet fosse riabilitata grazie per esempio a Piero Gobetti, che lo definì il «primo illuminista della penisola». Oggi, a trecento anni da quella prima pubblicazione, la Dissertazione filosofica sulla morte – qui nella veste curata da Frédéric Ieva – continua a invitarci, con il medesimo fervore, a difendere il diritto all’autodeterminazione degli individui sulla propria esistenza, a emanciparci dalle costrizioni mentali e dalle verità prescritte, a salvaguardare la libertà da ogni ingiusta imposizione.
Una visione del reale che, in ultimo, esalta l’umano proprio in quanto calato nel mondo e nella natura che lo circonda. Come infatti ha scritto lo stesso Radicati di Passerano, a conclusione del suo pamphlet, «un uomo stanco o sazio di vivere può morire quando lo desidera senza recare offesa alla natura, poiché morendo egli utilizza il rimedio che la natura gli ha generosamente messo nelle mani per curarsi dei mali di questa vita».
Testimonianza di un caregiver
di Davide Lago, docente di pedagogia generale, formatore in percorsi autobiografici. Pubblicato in Madrugada n.120 di dicembre 2020.
«È la notte tra il 5 e il 6 aprile. Dopo la telefonata ad Anna, e dopo aver applicato la terapia, una sensazione di leggerezza mi pervade. Mio padre ora dorme tranquillo. Prima ansimava paurosamente e mi sentivo incapace di prendere una decisione.
Quando gli ho dato la morfina, il suo sguardo era qualcosa di mai visto. Poteva voler dire “che fai?”, oppure “aiutami, fammi star meglio!”. Ora però dorme bene, non fatica più a respirare, sembra rilassato. Perché ho aspettato così tanto a praticare l’iniezione di cui il medico palliativista mi aveva già ampiamente parlato?
Forse perché, in fondo, averlo qui, benché sofferente, mi dà l’impressione di poterlo trattenere con le mani, facendolo scappare dall’incontro con il suo destino. Come se, per un delirio di onnipotenza, avessi la convinzione di poter cambiare il corso della vita. Accettare le cure palliative, invece, significa aprire le mani, iniziare a lasciarlo andare, provare ad accettare l’idea che le cose finiscono e le persone muoiono. Che non siamo onnipotenti».
Queste righe, scritte 30 ore prima che mio padre morisse, sono rimaste là, su un foglietto, fino a ora. Scritte a caldo, testimoniano sia la drammaticità di un momento, sia una svolta. Ricordo bene l’angosciante solitudine di fronte a mio padre che si avvicinava alla fine. Medico e infermiera mi avevano chiesto qualche ora prima se me la sentivo di praticare l’iniezione di morfina a fronte di spasimi evidenti, o se preferivo l’uscita di un infermiere notturno. Mi sono fatto spiegare bene la procedura e ho risposto che me la sentivo. Ho risposto persino che avevo seguito un amico in fase terminale appena un anno prima, e mi sentivo pronto. Al che il medico mi aveva risposto con gentilezza che capiva, ma che un amico non è il proprio padre. Lì per lì non ho voluto credere a quelle parole. Ora sì.
Mio padre è morto in casa, come avrebbe voluto. Malato terminale in cure palliative da alcuni mesi, la sua salute è declinata rapidamente nel giro di dieci giorni. È morto durante il grande isolamento, che allora chiamavamo ancora in italiano, prima che qualcuno scegliesse che avremmo dovuto chiamarlo lockdown. Questo momento ha complicato e facilitato le cose.
Da un lato mi ha reso la vita un po’ più difficile. Mio fratello era bloccato in Brasile e mia sorella non poteva darmi il cambio, lavorando in ospedale. Il medico curante è stato sempre attento a farmi evitare rischi di contagio, vista la presenza in casa di altre due persone anziane. Fare la spesa era difficile. Cercavo di farmi trovare pronto all’apertura del negozio, sia per evitare il contagio, sia perché tutti in casa erano ancora a letto e potevo muovermi più facilmente.
Andare in farmacia era difficile. Non c’era ancora il plexiglass, e talvolta non usavano ancora la mascherina. Andare all’Ulss era difficile. I farmaci ormai arrivavano direttamente lì e dovevo prenotarli con un certo anticipo programmando l’improgrammabile. Muoversi era difficile, con il lasciapassare da compilare e la sensazione di non essere mai del tutto in regola. Ecco, forse è stato difficile non solo per la pandemia, ma perché mi mancava qualcuno che mi aiutasse a relativizzare le mie paure. Poi mio padre si è aggravato. Avrò fatto tutto il possibile? Se ci fossero stati altri ad affiancarmi, sarebbe andata diversamente?
Avessi chiamato prima il medico in quell’occasione, fossi andato prima in farmacia quell’altra volta… Con l’aggravamento, tutto è cambiato. Gli infermieri domiciliari sono venuti due volte al giorno e l’accudimento è diventato condiviso, quasi come in ospedale.
Complicato e facilitato, dicevo. Da un altro punto di vista, infatti, l’isolamento ha regalato dei momenti di intimità familiare insperati. Il ritmo era rallentato, il silenzio totale. Le fabbriche spente, le strade deserte. Ogni mattina, aprendo le finestre, tortore e gazze passeggiavano beatamente sull’asfalto della provinciale davanti a casa. Si sentivano nuovamente e distintamente i rumori degli animali, come quando ero piccolo.
Come quando era piccolo mio padre. Certo, i parenti non potevano venire in visita, ma ne abbiamo approfittato per dedicarci completamente a lui, senza altre incombenze. Abbiamo curato il congedo. Mia madre ha passato ore intense accanto all’uomo col quale ha vissuto 57 anni. E mia zia ha iniziato a realizzare che suo fratello non ci sarebbe stato sempre per proteggerla. Con mio fratello e mia sorella ci sentivamo al telefono e l’aggiornamento era continuo. Io ero di fatto testimone privilegiato di quanto stava accadendo in casa. Mio padre se ne stava andando, come suo padre, come sua madre, nelle stanze che lui stesso aveva costruito. Tra le sue cose, i suoi odori, i suoni familiari, con i suoi ritmi.
Accudire un malato in maniera intensiva fa diventare accuditori. Se lo si fa anche formalmente, sembra che non abbiamo scelta e dobbiamo chiamarci caregiver. E sia. Quando un paziente sceglie di rimanere a casa, il caregiver arriva presto o tardi a fare i conti col fatto di essere solo. Certo, i medici e gli infermieri delle cure palliative ci sono sempre, reperibili anche di notte. Ma non sono in corridoio, pronti a intervenire per lenire le sofferenze del paziente e l’ansia del caregiver.
L’isolamento non ha fatto altro che amplificare questa solitudine. Una solitudine intensa, provata in vita solo in un’altra occasione. Una solitudine densa, forse. Una densità non solo paurosa, però.
Disponendo di un tempo liberato, di un ritrovato silenzio e di emozioni in presa diretta, questa solitudine può rappresentare l’occasione per dirci chi siamo, cosa siamo, cosa vorremmo essere ma non riusciamo. È una solitudine che spinge fino al fondo del proprio essere, là dove normalmente non si vorrebbe andare.
È un po’ come per il mito di Pandora. Se si apre il vaso, escono tutti i mali del mondo. La tentazione sarebbe di richiuderlo, terrorizzati. Eppure, solo facendo i conti con tutto quel che esce e spaventa, come Pandora possiamo finalmente guardare il fondo di quel vaso. Per scoprire che non è affatto sgombro. Accucciata in un angolo, stremata ma non spenta, fa capolino la speranza.
10 Film sul fine vita e la morte scelta a cura di Alessandro Bruni
- 1. Vi presento Joe Black (1998) regia Martin Brest
- 2. The others (2001) regia Alejandro Amenábar
- 3. Non è mai troppo tardi (2007) regia Rob Reiner
- 4. Amabili resti (2009) regia Peter Jackson
- 5. Hereafter (2010) regia Clint Eastwood
- 6. Coco (2017) regia Lee Unkrich
- 7. Endless (2020) regia Scott Speer
- 8. Soul (2020) regia Peter Docter
- 9. Amour (2013) regia di Michael Haneke
- 10. Still Alice (2015) regia di Richard Glatzer e Wash Westmoreland
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