di Paolo Becchi. Pubblicato in Paradoxa forum l’1 agosto 2024.
Il legislatore tace e la Corte costituzionale ci pensa lei con le sue sentenze a fare le leggi. Ben tre sentenze sul suicidio assistito. Per la verità il legislatore una legge l’aveva pur fatta, ma optando per una strategia completamente diversa, quella dell’accompagnamento dei malati sino ad ammettere la sedazione terminale. Ora la Corte chiede di più, suicido assistito e, perché no, in prospettiva anche eutanasia. Il tutto garantito dal Servizio Sanitario Nazionale. Tutta la procedura della morte viene medicalizzata e avverrà con interventi del personale medico in nuovi reparti ospedalieri creati ad hoc. Ma siamo certi che sia questa la via giusta?Consentitemi di esporre un punto di vista diverso. Prima ancora di avanzare considerazioni di tipo giuridico, vorrei affrontare la questione da un punto di vista etico o, per meglio dire, bioetico. La mia tesi di fondo è presto detta. Di contro ad un suicidio medicalmente assistito, come è quello che si sta prospettando, propongo una sua ‘familiarizzazione’. Mi spiego.
Un malato terminale che chiede di morire vive di solito in un contesto familiare e, per quanto oggi possano variare i modelli di famiglia, l’amore rappresenta un elemento ad essi comune. Non è detto tuttavia che sia necessariamente un contesto di questo genere: è possibile che quell’individuo non abbia formato una propria famiglia o non si riconosca in quella d’appartenenza. Ma anche in questo caso egli non sarà mai completamente solo e, anche se nella sua vita non avrà trovato l’affetto di una famiglia, avrà trovato almeno quello di un amico fraterno. Sono i familiari, gli amici, coloro insomma che hanno condiviso con lui la vita, che stanno condividendo con lui anche la sua lenta, inesorabile fine. E sono proprio loro i soggetti emotivamente coinvolti nella sua eventuale decisione di morire e, magari, da essa pure sconvolti.
Peraltro, nella pratica clinica il processo decisionale relativo all’eutanasia di solito coinvolge i familiari, tanto che esso può essere inquadrato nella triade paziente-medico-famiglia piuttosto che esaurirsi nel rapporto paziente-medico come fa la Corte. È in questo contesto relazionale che, forse, possiamo trovare la chiave per risolvere anzitutto da un punto di vista morale l’enigma dell’eutanasia.
Qualche esempio concreto potrà meglio illustrare ciò che intendo dire. Il marito che ha amato sua moglie per tanti anni condividendo con lei momenti di intensa gioia, conoscendo ora il tormento della sua compagna e la sua risoluta volontà di farla finita non potrà che condividere con lei anche quest’ultima sua decisione e darle la morte che implora, come gesto supremo del suo amore. Il figlio di fronte alla madre che gli ha donato la vita e ora, consunta e vinta dal dolore, lo implora di donarle la morte non potrà sottrarsi a questo compito. E la madre che gli ha donato la vita non potrà pure non togliergliela quando essa sia diventata per lui a tal punto insopportabile da spingerlo a invocare un brusco congedo al protrarsi di un’esistenza tiranneggiata dal dolore. O ancora, il compagno di tante battaglie di fronte al richiamo straziante dell’amico fraterno non potrà fargli mancare quel gesto estremo di solidarietà che gli viene con fermezza richiesto...
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