L’interfaccia con le professioni di cura
Il messaggio che la cultura della modernità porta con sé è certamente arrivato a chi abbia avuto la disponibilità a riceverlo: la saggezza necessaria non solo per vivere, ma anche per morire bene richiede di abbandonare l’affidamento passivo, per assumere un atteggiamento attivo nel rapporto di cura. In particolare, qualunque sia l’aggettivo con cui vogliamo qualificare la morte auspicabile – naturale, dignitosa, umana… – avrà bisogno di un impegno personale per strutturarla in armonia con i più intimi valori personali. Come se non bastassero le spinte della cultura e dell’etica, attualmente anche la legge rafforza l’autodeterminazione e autorizza la partecipazione attiva nelle decisioni di cura (cfr. Legge 219 del 2017: Norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento).
Per quanto sia riuscito il nostro personale progetto di morire in braccio alle Grazie e ai valori indicati programmaticamente dai loro nomi – Eufrosine o la consapevolezza, Aglaia o la serenità, Talia o la pienezza (1) – se la vita si conclude in un contesto sanitario, come avviene nella maggioranza dei casi, dovremo mettere in conto, oltre all’abbraccio delle Grazie, anche un confronto con i professionisti della cura. Volenti o nolenti, dovremo interfacciarci con i curanti, con le loro decisioni su che cosa fare o omettere di fare, con il loro modo personale di gestire la cura, sia con le parole che con interventi terapeutici.
Nel dibattito pubblico l’attenzione si è focalizzata soprattutto su grandi temi affrontati dall’etica. Per esempio, il confronto sull’eutanasia e sulla possibilità di anticipare la morte. Certo, sarebbe importante sapere quale posizione assumerebbero i medici, infermieri e altri professionisti della cura ai quali sarò affidato nel mio fine vita nel Dialogo sul suicidio medicalmente assistito, promosso dalla Consulta scientifica del Cortile dei Gentili (2); ma questa è solo una piccola parte di ciò che determina il profilo che avrà la mia personale conclusione della vita nel contesto clinico. L’interfaccia con questi professionisti è ben più ampio delle questioni di pertinenza della bioetica e del diritto, soprattutto se ci si riduce a muoversi entro schemi polarmente contrapposti, come gli schieramenti “pro vita” o “pro choice”.
Cerchiamo di ricostruire il complesso scenario dell’interfaccia con i professionisti assumendo come punto di partenza una presa di posizione espressa in un contesto clinico. Ci spostiamo in un ospedale inglese, reparto di ostetricia. Protagonista Adam Kay, un giovane specializzando, travolto da un peso dell’assistenza che sconvolge la sua vita personale. Ne ha vissute tante che decide di scrivere un libro. Come titolo sceglie la frase che era solito dire alle donne che assisteva nel parto: Le farò un po’ male. Sottotitolo: Diario tragicomico di un medico alle prime armi (3). Il libro ha tanto successo che ne viene tratta una serie televisiva: This is going to hurt. Mostra il dietro le quinte della professione medica, uno scenario che sfugge completamente a chi si trova nello stato di malato in cura: la posizione che assume chi svolge una professione di cura. Ci introduce un’osservazione marginale di Adam Kay:
“Prima o poi arriva il momento di decidere che tipo di medico essere. Non in senso tecnico, per esempio se vuoi diventare urologo o neurologo, ma per quanto riguarda il tipo di atteggiamento che vuoi avere con i pazienti. Durante la specialità il tuo personaggio si evolve, ma in genere ci vogliono due o tre anni per assumere un modo di fare coerente che manterrai durante la carriera da specialista. Sei sorridente, simpatico e ottimista? Silenzioso, contemplativo e scientifico? Penso sia lo stesso bivio di fronte al quale si trovano gli agenti quando scelgono se diventare poliziotti buoni o cattivi (o poliziotti razzisti). Ho deciso di essere uno “che va dritto al punto”: niente scemenze, niente chiacchiere, andiamo al succo della questione, con un pizzico di sarcasmo per completare la ricetta”.
Quello che lo specializzando tratteggia è il tipo di atteggiamento che gli esperti delle discipline comportamentali chiamano “postura”. Per lui si tratta di decidere “che tipo di ostetrico” diventare; è una scelta che tutti professionisti della cura fanno propria, assumendo una postura che li caratterizza, indipendentemente dalle specializzazioni che abbracciano.