di Guia Soncini. Pubblicato in Linkiesta il 6 novembre 2024.
“Il giorno di Santo Stefano ero a Roma, e dopo una bella passeggiata fino a Piazza del Popolo, seguita da un giretto a Villa Borghese, poco dopo essere rientrato a casa sono caduto.” È la fine del 2022 quando la vita di Hanif Kureishi cambia. Dopo quella caduta non può più camminare, scrivere o lavarsi; non può fare nulla senza l'aiuto degli altri. Inizia così la sua odissea, prima all'ospedale poi in un centro di riabilitazione, con la speranza di tornare nella casa di Londra, che lo accoglierà di lì a un anno, trasformata per adattarsi a lui, che a sua volta si adatta con fatica, rabbia, umorismo, coraggio al suo nuovo qui ed ora. “Molti dicono che quando sei in punto di morte tutta la vita ti scorre davanti agli occhi, ma io non pensavo al passato quanto al futuro, a tutto quello che mi era stato sottratto, a tutte le cose che volevo fare.” È il futuro, via via che si fa presente, la materia di questo libro, una serie di dispacci dal letto d'ospedale e dopo il ritorno a casa, dettati ai suoi cari e poi editati con pazienza, che restituiscono la voce di Hanif Kureishi come l'abbiamo sentita nei suoi romanzi: feroce, ironica, onesta.
E' uscito in libreria “In frantumi”. È la storia scritta da Hanif Kureishi di quel che gli è accaduto quasi due anni fa a Roma: è caduto. È caduto in casa, e si è rotto l’osso del collo. Si è risvegliato tetraplegico.
Era gennaio del 2023, e uno dei migliori scrittori che conosco mi disse: Kureishi è la cosa più potente da leggere in questi giorni, comico e straziante. Ventidue mesi dopo, non ha smesso di esserlo (mi dice chi l’ha visto che neanche ha mai smesso d’essere splendidamente arrogante, che è la miglior notizia dell’anno: fosse diventato mite, sarebbe bruttissimo segno).
E io non ho mai smesso di chiedermi come facesse. Non: come facesse a svegliarsi paralizzato e a sbattersi per venirne fuori invece di deprimersi e annichilirsi. Quella è un’incognita così enorme che non mi ci avventuro. M’interrogavo su una cosa apparentemente minuscola ma dirimente per chi di mestiere scrive.
Kureishi, che già doveva reimparare a vivere senza braccia e senza gambe e senza privacy, ha dovuto anche imparare a scrivere senza che le idee gli venissero muovendo le dita. Foss’in lui, sarei ben più incazzato di quanto s’intravede lo sia lui. A Federica Manzon, che lo ha intervistato per La lettura, ha dato questa descrizione qui: «È come aver perso una parte della tua vita, ti guardi indietro e ti chiedi come faceva a significare così tanto per te. Sei un alieno atterrato sulla Terra che osserva la gente giocare a calcio e si chiede perché diavolo a questi piace così tanto».
Però non è di che grande scrittore sia Kureishi che voglio parlare, di quanto sia tenace il suo attaccamento alla vita, di quanto indomito sia il suo spirito d’osservazione. Voglio parlare di una cosa che ha scritto a febbraio, e che mi ha messo addosso un’angoscia che è quella che hanno cercato invano di trasmettere durante la campagna elettorale americana. Alla fine ci dev’essere stato un cambio di strategia, perché le celebrità che facevano il loro discorsetto pro-Harris non parlavano più dell’aborto ma del resto: del tetto al prezzo dell’insulina, dell’assistenza per i poveri, di tutte le differenze che avrebbe fatto avere un governo vagamente di sinistra in un Paese privo di stato sociale.
Kureishi però è inglese. La prima parte della sua riabilitazione l’ha fatta a Roma, poi è tornato a Londra. La sua esperienza è quindi quella che ha un malato grave in due paesi che hanno la sanità pubblica, e guai diversi da quelli americani. Certo, da noi l’insulina è gratis (cioè: il diabetico l’ha già pagata con le tasse, lui e gli altri contribuenti), ma il problema della sanità pubblica è che poi i soldi finiscono. E non è che, quanto a guai e tagli, la sanità inglese sia messa assai meglio della nostra.
Quindi un mattino Hanif è lì che detta al figlio Carlo, e inizia ad avere degli spasmi alla vescica. Gli si è intasato il catetere. Non riescono a risolvere. Gli sale la pressione. Potrebbe venirgli un ictus. Ci vogliono pochi minuti, per cambiare il catetere, ma serve un infermiere che lo sappia fare, e la persona che è lì per badare a lui non è specializzata, può solo mandare il giovane Kureishi in farmacia a comprare un attrezzo con cui tentare un risciacquo del catetere. Ma in nessuna farmacia vicina si trova ciò che serve.
Le persone attorno a lui cercano di procurarsi aiuto, ma la sanità pubblica inglese non manda un’ambulanza perché, benvenuti nel secolo in cui siamo troppi e non ci sono abbastanza risorse, Kureishi non sta abbastanza male. Fosse almeno svenuto. Fosse più morto che vivo. Finché di ambulanze ne arrivano due, ma – ho già detto «benvenuti nel secolo in cui siamo troppi e non ci sono abbastanza risorse»? – nessuna con a bordo una persona qualificata a cambiare un catetere.
Vogliono portarlo al pronto soccorso, lo caricano in ambulanza e lui già si vede a morire in un corridoio in attesa, come si è visto chiunque sia stato in un pronto soccorso in anni recenti (sempre quelli di: troppa gente, non abbastanza risorse). Ma, un attimo prima di partire, come in un film scritto male, un portantino gli dice che è tutto risolto: ora se ne occupano queste due signore che passavano per strada giusto ora, sono due infermiere professionali. Che in un attimo gli cambiano il catetere, e tutto è bene quel che finisce disostruito.
Il catetere bloccato di Kureishi ha avuto su di me l’effetto che non è mai riuscita ad avere la campagna elettorale della gente famosa che in America invitava a votare Kamala Harris. Forse è che non vivo in un posto che non fa leggi perché conta sulle sentenze della Corte Suprema, o in un posto che ti abitua fin da piccola all’idea che essere curati o no sia questione di reddito. Forse è che so che la vita è sceneggiatrice, ma mica sempre di roba col lieto fine, e quindi da mesi mi chiedo: e se le infermiere non fossero passate di lì per caso?
sintesi di Alessandro Bruni
per leggere l'articolo completo aprire questo link