a cura di Alessandro Bruni, sintesi da comunicati pubblicati in Italia e da precedenti comunicati apparsi sul web da parte di strutture regolatorie dei farmaci di Stati Uniti, Giappone, Regno Unito e Ue.
In Italia, il 5 novembre 2024, il Comitato per i farmaci a uso umano dell'Ema ha raccomandato l'approvazione del farmaco per il trattamento dei pazienti adulti con diagnosi clinica di lieve compromissione cognitiva e demenza lieve dovuta al morbo di Alzheimer.
L'approvazione attuale arriva a seguito di nuova analisi dei dati sul farmaco da parte dell'ente regolatorio europeo che, la scorsa estate, aveva adottato un parere negativo. La palla passa ora alla Commissione europea per l'approvazione definitiva che dovrebbe arrivare entro un paio di mesi.
Soddisfazione è stata espressa dai clinici. "La notizia dell'approvazione apre una nuova storia per il trattamento dei pazienti con Alzheimer, in particolare per coloro che si trovano nelle fasi iniziali per i quali la progressione della malattia potrà essere contrastata", affermano in una nota congiunta Alessandro Padovani, presidente della Società Italiana di Neurologia, e Marco Bozzali, presidente della Società Italiana per lo Studio delle Demenze.
Tuttavia, gli esperti, pur favorevoli all'allargamento dell'uso clinico, sono comunque cauti: "Sicuramente non tutti i malati potranno beneficiare di questo trattamento", avvertono. Inoltre, "dovremo attendere la decisione di Aifa anche in relazione ai centri che verranno autorizzati in Italia a somministrare la terapia, in attesa che altri farmaci ad azione simile vengano autorizzati in futuro".
Dopo questa presa di posizione dell'Ema, vediamo di fare un po' di chiarezza sul farmaco per darne una attesa sanitaria di maggiore conoscenza per pazienti e caregiver familiari.
Sebbene la ricerca di un farmaco per il trattamento dell’Alzheimer prosegua da diversi anni a livello mondiale, a oggi la malattia non può essere curata né rallentata. Al momento sono in fase di sperimentazione clinica più di 100 diversi principi attivi. Uno di questi è il Lecanemab, sviluppato dalla società farmaceutica giapponese Eisai insieme all’azienda partner statunitense Biogen. Il principio attivo, noto con il nome commerciale Leqembi, è già stato autorizzato tra l’altro negli Stati Uniti, in Giappone, in Gran Bretagna e nell'Unione Europea.
Il principio attivo Lecanemab, conosciuto anche con il nome di BAN2401, mira a modificare la biologia alla base dell’Alzheimer, rallentando la progressione della malattia a uno stadio iniziale. Il principio attivo non permette tuttavia di curare l’Alzheimer.
Il Lecanemab è un anticorpo monoclonale umanizzato in grado di indurre un’immunizzazione passiva concentrandosi sui depositi proteici nel cervello, caratteristici dell’Alzheimer. Nello specifico agisce sugli aggregati di beta-amiloide, una delle due proteine il cui accumulo e deposito sarebbero, secondo le ricerche attuali, tra le cause della malattia.
Negli ultimi dieci anni il principio attivo è stato oggetto di numerosi studi clinici, a cui hanno preso parte centinaia di persone. Ai soggetti è stato somministrato un placebo o il Lecanemab tramite infusione intravenosa effettuata ogni due settimane per un periodo di 18 mesi oppure con una iniezione quindicinale nel sottocutaneo per sei mesi. Nel corso degli studi sono stati monitorati la gravità dei deficit cognitivi e funzionali, il livello di beta-amiloide nel cervello e l’insorgenza di effetti collaterali.
I primi risultati sono stati incoraggianti con una riduzione del 27% del declino clinico cognitivo e funzionale con riduzione significativa della quantità di beta-amiloide. Il 76% dei partecipanti con bassa presenza di tau (cioè quelli nelle prime fasi della malattia di Alzheimer) non ha mostrato alcun deterioramento, mentre il 60% ha mostrato un miglioramento clinico rispetto al gruppo placebo.
Il principio attivo può tuttavia dare luogo a effetti collaterali, come edemi cerebrali o micro-emorragie.
Si deve tuttavia ricordare che sebbene i risultati sull'uso del Lecanemab siano incoraggianti, gli interventi non farmacologici continuano a rivestire un’importanza centrale al fine di stabilizzare o migliorare la qualità di vita delle persone affette da demenza e dei loro familiari.