di Sandro Spinsanti. Pubblicato nel blog dell’autore il 24 ottobre 2024.
Quando si nominano dei progressi in medicina vengono subito in mente farmaci innovativi, ultimissimi apparecchi supertecnologici, magari anche un tuffo nel futuro che si sta preparando grazie all’intelligenza artificiale. Vero. Ma non solo: ci sono anche cambiamenti di altro genere, che possono essere salutati come un’innovazione rispetto al modo in cui la medicina veniva praticata in passato. Il pensiero va a quelle innovazioni che sono state auspicate dal movimento della bioetica, focalizzate su una partecipazione attiva e consapevole della persona malata nel processo di cura.
L’attenzione a un cambiamento significativo di questo genere ci viene suggerita da un romanzo di una scrittrice che si è fatta un nome grazie a narrazioni piene di humor, leggerezza e ottimismo: Sophie Kinsella. Sì, proprio l’autrice di I love shopping. Il suo libro recente: Cosa si prova (Mondadori 2024) racconta, sotto forma di romanzo, la propria vicenda biografica. Colpita da un glioblastoma di quarto grado – un tumore maligno per il quale non esistono risorse terapeutiche risolutive e con una prognosi infausta a breve termine – è stata sottoposta a tutto quanto la medicina è in grado di offrire: intervento chirurgico, radio, chemio, riabilitazione. Appena i sintomi devastanti hanno concesso un po’ di remissione, la scrittrice si è rimessa all’opera con un romanzo che, a sua ammissione, è un calco del proprio vissuto autobiografico.
Indipendentemente dalle qualità letterarie, il racconto merita la nostra attenzione per il modo in cui è stata gestita la vicenda clinica. La devastazione cerebrale causata dalla patologia ha lasciato la protagonista in uno stato confusionale. “Cos’ho che non va?” è la prima domanda che riesce a formulare a suo marito. A questo punto in passato era quasi scontato che si avviasse un processo di copertura della realtà. Le prognosi infauste i medici le comunicavano al familiare di riferimento, mentre con il malato stesso erano evasivi, quando non esplicitamente menzogneri. E i congiunti si alleavano con i professionisti sanitari per tenere il proprio caro all’oscuro. La reticenza era il modo abituale di comunicare che si instaurava in scenari di questo genere. Si avviava così la congiura del silenzio; o piuttosto “la bolla dei segreti solitari”, come è stata opportunamente definita da Kathryn Mannix, dottoressa inglese esperta in cure palliative.
La scelta nel caso della protagonista del racconto – esattamente uguale a quella adottata nella vicenda personale di Sophie Kinsella – è stata quella di una comunicazione veritiera. Un percorso graduale, che vede impegnata la coppia in un laborioso cammino di appropriazione di informazioni che si fatica a far proprie (“Me l’avevi già detta questa cosa?”, chiede la malata al marito; “Alcune volte”, è la risposta…). Anche perché la protagonista stessa confessa che “vuole sapere, ma non vuole sapere”. Non solo: l’oncologo di riferimento consiglia di rivelare la malattia, nei termini realistici che la connota, anche ai figli. Si tratta di una famiglia numerosa, con cinque figli, alcuni avviati verso l’età adulta ma altri ancora sulla soglia dell’adolescenza. Se è duro per loro confrontarsi con la realtà che incombe – “cinque mucchietti di lutto”, come vengono descritti – sarebbe peggio venir a conoscere lo scenario negativo casualmente; o essere brutalmente esposti agli esiti peggiori del percorso della malattia, senza essere minimamente preparati.
È questo il progresso della medicina che ci stupisce. Si appoggia sulla presa di coscienza che gli inganni con cui la cultura del passato mascherava le condizioni cliniche che non permettevano una risposta di guarigione erano destinati a produrre, malgrado le buone intenzioni, sofferenze aggiuntive. Ed erano la premessa per brutte morti. Il cambiamento consiste nel riconoscere diritto di cittadinanza alle parole oneste nel percorso di cura. Con un’onestà che non è sinonimo di brutalità, ma si traduce in accompagnamento. È una prospettiva faticosa, ma feconda. È questa la buona cura che auspichiamo quali cittadini di una cultura adulta, quella che non si riconosce più in una “minorità non dovuta”, come l’ha chiamata Immanuel Kant, che induceva a trattare il malato come un minore a cui si deve nascondere la sua vera condizione.
Non ci rimane che ringraziare Sophie Kinsella per averci reso partecipi di “cosa si prova” a fare quel percorso insieme a clinici e familiari che hanno scelto di fondare il loro rapporto sulla verità, piuttosto che sul terreno paludoso delle bugie pietose.