di Alessandro Bruni
Per molti studiosi di sanità pubblica la parola “disabile” non è opportuna, così come non lo è l’espressione “diversamente abile”: in entrambi i casi, infatti, si identifica la persona con la sua condizione psico-fisica, riducendo lo spazio di autodeterminazione a cui ha diritto. L’espressione più corretta sarebbe “persona con disabilità”, che definisce un individuo con una limitazione temporanea, a cui si deve aggiungere la dizione “persona con disabilità permanente”, che sta ad indicare la presenza di cronicità e quindi di una menomazione che non può essere curata, ma solo accettata. Questi distinguo, seppur corretti, hanno lo svantaggio di una distinzione artificiosa che è difficile usare vocalmente. Sono dell’avviso che è bene saperlo e distinguere nella scrittura, ma poi nella conversazione è più comoda la dizione omnicomprensiva di disabilità, per non cadere in noiosi distinguo etimologici di lana caprina.
Esiste nell’uomo una forte predisposizione alla categorizzazione seguita da una radicalizzazione che non è solo di distinzione realistica, ma di mezzo di comprensione personale: quasi a esprimere una forma di autismo latente in cui ci si appropria di una realtà socio sanitaria fluida (es. spettro autistico espresso nel DSM-5 con tre livelli 1, 2, 3, che sono un esempio di generalizzazione e non di specificazione). In metafora la categorizzazione dello spettro autistico è esemplificata dal “cesto di frutta” come a dire che nel cesto c’è frutta di specie diverse quali mele, pere, arance, albicocche, ecc., come a dire che esistono persone diverse con autismo diverso, come dire che in natura esiste una fluidità che rifugge da una classificazione generica. Una volta acclarato tutto questo come principio di approccio individualizzato, subito abbiamo bisogno nella gestione dell’insieme di creare dei livelli artificiali per necessità di distinguo e trattiamo il livello di disabilità affermando che il nostro cesto di frutta è composto di tre tipi frutta; acerbe, mature e marce; dimenticando che la distinzione dovrebbe essere basata sulla persona e non sulla qualificazione: in definitiva prima affermiamo la differenza in base al soggetto (la persona) e poi nella pratica facciamo distinzione sulla base dell'oggetto (la menomazione). E questa non è un'affermazione di lana caprina.
Se prendiamo in considerazione le disabilità causate da differenze genetiche, da quelle dell’infanzia a quelle della senilità, troviamo che sono precipue per la forma cumulativa del disabilismo, non solo espresse dal marchio genetico, ma dal sovrapporsi di distinzioni determinate dal contesto di vita in cui quelle differenze genetiche si sono espresse sul singolo portatore di disabilità. Come a dire che le persone con disabilità hanno menomazioni plurime e differenti in relazione alla loro visibilità e ai messaggi culturali e pregiudiziali veicolati dal vissuto, più che dall’eredità genetica.
Ne sorge di fatto una gestione clinica, che dopo raffinate analisi genetiche, finisce col concludere di poter agire terapeuticamente con i soli strumenti della sociopsicologia educativa e della risposta che il bambino dà in relazione del suo assunto familiare di crescita. Un assunto importante ed un paradosso curioso: se consideriamo due bambini disabili uno di famiglia veneta e uno di famiglia marocchina (ma potrebbero anche essere uno ligure e l’altro calabrese) con pari situazione di anomalie genetiche si dovrà fare un piano terapeutico totalmente differente dovendo considerare la loro differente condizione relazionale passata, presente e futura. Il servizio psico sociale dovrà affrontare un problema che non è affatto di lana caprina, ma di concreta differenza di approccio clinico.
Sul piano sociale accettare la diversità di fondo familiare significa accettare la persona disabile in toto (espressione lapalissiana, ma non tanto nella realtà) con tutte quelle caratteristiche umane e sociali che rendono ogni individuo originale, ma significa anche, in un certo grado, accettare la stigmatizzazione che i normotipi finiscono col fare: dallo stupore che provano quando per la prima volta si trovano di fronte ad un neurodivergente infantile o senile, al pietismo del finto altruista, alla stupidità del rifiuto di averne uno seduto accanto, al negare loro il diritto a vivere tra la gente (...”se sono diversi è bene rinchiuderli per evitare che facciano del male”…).
Esercitare la tolleranza e bandire la stupidità è facile solo in teoria. Nella pratica è un esercizio comportamentale che deve essere espresso da tutti, normotipi o neurodivergenti che siano. Bisogna essere capaci di fare la differenza. Se un normotipo pratica la “mano morta” è certamente grave e il comportamento va assolutamente corretto con forza. Ma anche se è un neurodivergente a farlo deve essere corretto dato che non è lecito lasciarglielo fare, ma la modalità di correzione deve tenere conto di un linguaggio comunicativo che possa essere compreso in primis dal disabile stesso (che sia veneto o marocchino, ligure o calabrese), che magari l’ha visto fare in un film e ha voluto imitarlo senza alcuna espressione sessuale. E questa non è una considerazione di lana caprina dato che il pietismo pubblico può essere un vizio, mentre la pietas individuale può essere una virtù.
Tutto questo sta a significare che i vissuti delle famiglie con figli neurologicamente disabili sono contrassegnati dalla presenza di “barriere a fare” e “barriere a esistere” che possono incidere sulla qualità prima clinica e poi della vita e sul livello di stigmatizzazione che, pur bassa che sia, esiste ad ogni età. Le barriere al fare si configurano come ostacoli alla realizzazione di diritti sociali, mentre le barriere all’esistere si configurano come forme di oppressione che agiscono a livello della sfera individuale che trovano soluzione in un lavoro educativo che dura quanto la vita essendo in relazione alla modalità di crescita dell’individuo di fronte alle relazioni intersoggettive che cambiano con il tempo.
Imparare a gestire queste differenze è fondamentale per inserire il soggetto disabile nella società. E’ necessario al contempo un grande cambiamento sociale che coinvolga la società e che porrà la persona disabile nella necessità di continui traguardi. Non è certamente un percorso facile, soprattutto sino a quando in metropolitana, come racconta la madre di Edoardo: Negli occhi degli altri leggi: “Ma perché l’hai portato fuori?”