di Sandro Spinsanti. Pubblicato nel blog dell’autore il 4 ottobre 2024.
Sono diverse le motivazioni che inducono un essere umano a prendersi cura di un altro, ed è dal loro intreccio, integrato in un tessuto organico, che prende forma la cura nella sua globalità. La cura che si nutre di pietas, che ci rimanda soprattutto ai rapporti che si sviluppano nell’ambito familiare, si può predicare, ma non è possibile costringere i renitenti a praticarla; e quando essa viene meno o assume aspetti complessi, si affacciano sullo scenario sociale altre modalità di cura, in particolare quella che si ispira a un ideale filantropico. Anche in questo contesto non possiamo parlare di diritti e di obblighi legali, ed è in questo ambito che collochiamo il volontariato, completamento indispensabile della cura che affonda le radici nella pietas. Ma quando si delineano i limiti del volontariato (difficoltà di programmazione e precarietà) vediamo profilarsi una cura assicurata dai curanti per professione.
Chi esercita la cura in modo professionale ha ricevuto una formazione adeguata e si impegna a tenerla aggiornata, ed è inoltre vincolato da un insieme di regole, che hanno il valore di impegni deontologici. Il più importante di questi è di non far dipendere le cure dalla qualità umana di chi le riceve: tutti hanno diritto a esse sulla base del bisogno, non del merito, almeno nell’ambito di società che hanno fatto proprio il modello di una sanità universalistica. La cura è il legame che tiene insieme la società che ha fatto della solidarietà il valore fondante.
Premessa
La cura non è necessario definirla: la conosciamo intuitivamente. Ci diventa familiare soprattutto quando manca, ovvero quando ci sentiamo “tras-curati”. Possiamo farci tuttavia delle domande che permettono di penetrare più profondamente nel territorio della cura; a cominciare da quella motivazionale: che cosa induce un essere umano a curare/prendersi cura di un altro? Sono diverse le motivazioni, così come variano le modalità di praticare la cura. È dal loro intreccio che prende forma la cura nella sua globalità, così da apparirci come una delle espressioni più alte dell’essere umano; ma anche una delle più delicate: la cura va monitorata affinché non degeneri. E soprattutto le diverse modalità della cura vanno intrecciate tra loro in modo che si integrino in un tessuto organico, senza contrastarsi, ma piuttosto integrandosi.
La cura che si nutre di pietas
Se vogliamo un simbolo che ci introduca in maniera immaginifica in questa modalità di cura, ci soccorre Enea che tiene per mano il figlio Ascanio e si carica sulle spalle il padre Anchise. La pietas ci rimanda ai rapporti che si sviluppano primariamente nell’ambito familiare; vede generazioni impegnate nella cura in ruoli che si succedono: chi ne beneficia è poi chiamato a dispensarla a sua volta, quando verrà il suo turno. Caratteristica di questa modalità di cura è che non può essere invocata come un diritto, né può essere imposta. Siamo pronti a deprecarne l’assenza, quando viene a mancare, ma non possiamo intervenire in chi si tira fuori da quest’obbligo morale di dare, a propria volta, quanto ha ricevuto. La pietas si può predicare, ma non è possibile costringere i renitenti a praticarla.
Il termine più diffuso per parlare della cura che ha luogo nel contesto familiare è “caregiver”. Nome neutro, grammaticalmente; in realtà di genere femminile, nella maggioranza dei casi. Storicamente è stato il ruolo delle donne, individuate come responsabili della cura dei familiari. Specie nei due segmenti della vita in cui l’assistenza è di primaria necessità: nell’infanzia e nella tarda vecchiaia. Avere un figlio con una grave disabilità relega una quantità di donne in un cono d’ombra in cui viene loro praticamente negato il diritto ad avere una propria vita come è garantito ad altri. Sono legate a doppia catena in un lavoro di cura che non termina mai. “Come organizzare la gestione di un figlio disabile senza la certezza di avere supporti”: è il titolo di una rubrica proposta da un centro sociale (Gruppo Solidarietà, che promuove politiche sociali) per dar voce a caregiver che si trovano quotidianamente ad affrontare dilemmi di questo genere.
I numerosi premi letterari, tra cui il prestigioso Strega, attribuiti alla narrazione, di struttura autobiografica, di Ada d’Adamo: Come d’aria hanno dato visibilità al libro, permettendo a molti lettori di affacciarsi sul vissuto di una donna che deve occuparsi ininterrottamente di una figlia nata con gravi cerebrolesioni e che non diventerà mai autonoma. Sono esperienze estreme della cura che emergono con la preoccupazione del “dopo di noi”, oppure con rari, ma molto clamorosi, fatti di cronaca: come quando un caregiver, dopo anni e anni di assistenza domestica a un proprio caro con l’Alzheimer, stremato, precipita in un burnout e gli toglie la vita, per dare al proprio caro e a sé stesso la pace che un’esasperante attività di cura ha sistematicamente eroso.
Anche senza far ricorso a casi drammatici, la gravità che accompagna la cura che sgorga dalla pietas emerge dal profilo socio-epidemiologico della nostra società occidentale. Famiglie sempre più piccole sono chiamate a farsi carico di anziani fragili, e spesso anche gravemente malati, sempre più longevi. Per appoggiarci ancora all’immagine mitica di Enea, è come se l’eroe fosse chiamato a caricarsi sulle spalle il peso del padre non quando è nel fiore degli anni e nel pieno delle forze, ma quando, già anziano, ha bisogno a sua volta di assistenza: immaginiamo un Enea settantenne che si addossa il peso di un padre novantenne, mentre tiene per mano un figlio quarantenne a cui una grave patologia ha impedito di diventare autosufficiente… Per molti caregiver le cure richieste dai propri familiari, non di rado per lunghissimi periodi di tempo, costituiscono un drenaggio delle proprie energie vitali. Come dire che tengono in vita le persone a cui dedicano la cura al prezzo della propria. Oggi sono numerosi i genitori ottantenni con figli con disabilità ultracinquantenni. E siccome le energie, anche generate dalla migliore buona volontà, hanno dei limiti, è necessario che la cura attinga anche da altre risorse, oltre a quelle prodotte dalla condivisione dello stesso patrimonio genetico.
La cura che nasce nel circuito della pietas che tiene insieme famiglie e nuclei di affini merita certamente la più alta considerazione morale. Ci sentiamo di collocarla in quell’ambito che un comandamento fondante della nostra tradizione morale formula come obbligo di “onorare il padre e la madre”. Ovvero, in senso molto ampio, di assumere gli obblighi di cura che l’affinità carica sulle nostre spalle: i genitori verso i figli, i figli verso i genitori, fratelli e consanguinei reciprocamente. Senza dimenticare, tuttavia, che si tratta di un terreno insidiosamente cosparso di cocci taglienti, che possono ferire chi vi cammina sopra. Il riferimento è ai sensi di colpa di cui si sente investito chi deve praticare la cura per obbligo morale: talvolta evocati in modo esplicito (“Dopo tutto quello che ho fatto per te!”…), talaltra presenti sottotraccia. Il dono della cura può generare l’attesa di un controdono, sotto forma di un obbligo che intreccia le generazioni le une con le altre. Per non menzionare i conflitti intrafamiliari che talvolta portano a contrapposizioni su chi debba assumersi la responsabilità della cura e sulla cura stessa (le sue forme, i suoi limiti).
Nello scenario di cure palliative e di accompagnamento verso il fine vita è frequente assistere a litigi tra familiari su che cosa è opportuno tentare o omettere nel ventaglio delle cure disponibili. In perfetta buona fede e con le migliori intenzioni, l’unità familiare cede il posto a dolorosi conflitti. Oggetto del contendere diventa spesso la misura appropriata della cura, chiamata a non cadere né nell’insidia del troppo (“ostinazione irragionevole nella somministrazione della cura e ricorso a trattamenti inutili o sproporzionati”, secondo la formulazione della legge 219 del 2017 sul consenso informato) o del troppo poco. Per quanto possa sembrare paradossale, si può causare molto dolore con la pietas: certe forme di amore incondizionato verso un proprio familiare – come non lasciarlo andare, quando è giunto al termine del suo percorso vitale – possono essere fonte di sofferenze gratuite. Tutto ciò è sufficiente per salutare l’affacciarsi sullo scenario sociale di altre modalità di cura, in particolare quella che si ispira a un ideale filantropico.
La cura nello scenario della solidarietà filantropica
Anche la cura che si sviluppa in un clima di filantropia ha un suo simbolo consolidato: il buon samaritano della parabola evangelica (Luca 10, 25-37). Fermarsi e farsi carico del malcapitato abbandonato sul ciglio della strada, anche se completamente estraneo – addirittura nemico, come erano considerati i samaritani dagli ebrei –, dà corpo a un’altra modalità della cura. Neppure in questo contesto possiamo parlare di diritti e di obblighi legali; questo prendersi cura può essere tutt’al più oggetto di esortazione (nella parabola suona: “Va’ e fa’ anche tu altrettanto”). In termini moderni la figura retorica della parenesi è detta “moral suasion”.
È in questo vasto ambito che collochiamo il volontariato. Fare volontariato è raccomandabile come ottima terapia per uscire dalla gabbia dell’individualismo. Il volontariato è così socialmente importante da meritare la proposta di essere elevato da parte dell’Unesco a patrimonio immateriale dell’umanità. Con questa categoria ci si riferisce a quei beni che conferiscono a una comunità un senso di identità e di continuità. Come afferma Tiziano Vecchiato3, il volontariato è il cuore pulsante delle migliori tradizioni umanitarie e una preziosa risorsa per uno sviluppo equo e sostenibile. Senza sostituirsi alla cura che affonda le radici nella pietas, l’azione volontaria in questo ambito ne è un completamento indispensabile.
Trattenendoci ancora nel perimetro della parabola, ci chiediamo: perché il sacerdote e il levita non si sono fermati a soccorrere il bisognoso? Le risposte più facili e standardizzate sono quelle che dietro il loro comportamento vedono malanimo (se, per definizione, il samaritano è “buono”, quelli che non si comportano come lui meritano di essere catalogati come “cattivi”), diffidenza (“Poveri cristi, see”…) o insensibilità. E se invece i due personaggi menzionati dalla parabola non avessero proprio visto la persona in stato di bisogno? L’ipotesi è stata presa sul serio da alcuni studiosi che si sono proposti di fare ricerche di etica sperimentale.
L’esperimento a cui ci riferiamo è riportato e discusso nel volume di Ruwen Ogien: Del profumo di croissants caldi e delle sue conseguenze sulla bontà umana4, che raccoglie una quantità di rompicapi morali creati artificialmente (a cominciare da quello che dà il curioso titolo al libro: verificare se il buon profumo che esce da un forno stimola i passanti a dare più elemosine a un mendicante posto davanti a esso, rispetto a negozi dai quali non esce alcun profumo…). In questo caso l’intento era di capire se il prestare o no aiuto sia un indicatore univoco dell’innata bontà o malvagità dell’animo umano, oppure se dipenda da circostanze che condizionano il comportamento. Alcuni studenti di teologia sono convocati in un edificio dell’università con il pretesto di prendere parte a una ricerca sull’educazione religiosa. Vengono informati che devono recarsi in un altro edificio dell’università per terminare il colloquio, prendendosi tutto il tempo che vogliono (il primo gruppo), rapidamente (il secondo gruppo) o molto rapidamente (l’ultimo gruppo). A metà strada tra un edifico e l’altro si trova un complice dello sperimentatore che si accascia, lamentandosi, al passaggio dei seminaristi.
Ci si potrebbe aspettare che tutti i seminaristi (conoscendo a memoria la parabola del buon samaritano!) si fermino per soccorrere l’infermo. Ma non è quello che capita: gli unici propensi a fermarsi sono quelli che non hanno fretta. Solo il 10% di quelli che hanno molta fretta si ferma a dare soccorso, mentre di quelli che non hanno fretta si ferma il 63%.
Senza enfatizzare eccessivamente l’esperimento, possiamo tuttavia considerarlo istruttivo. Siamo indotti a domandarci se la relativa indifferenza circa i bisogni di cura del prossimo non dipenda, più che dall’animo di coloro che lo incrociano, da condizionamenti di scenario. A cominciare dai loro occhi: non li vedono. Nell’esperimento la fretta ha reso invisibili i bisognosi. Molti tratti dell’organizzazione sociale inclinano in tal senso. Basterebbe pensare alla distribuzione di competenze per settori, che creano silos incomunicabili tra loro. Si è inclini a non considerare ciò che esula dalla propria responsabilità.
Basta evocare in tal senso quello che è stato identificato come “dolore burocratico”, ovvero l’impossibilità di tante persone di ricevere risposte ai loro bisogni semplicemente perché non riescono a penetrare nella rete – oggi per lo più informatica – che circonda i servizi offerti. Il frustrante peregrinare di molti cittadini da una struttura all’altra del servizio sanitario senza riuscire a ottenere la risposta di cura a cui pur hanno diritto è il prodotto di questa invisibilità burocratica. Ci sono numerose fragilità che è necessario mettere in evidenza, se non vogliamo che scompaiano dalla visibilità a causa di un’organizzazione che produce cecità selettiva. Il compito di un volontariato sensibile ai diritti negati e innervato con l’etica di una socialità universalistica è quello di far vedere coloro che giacciono, ignorati, ai bordi della strada.
Un tratto di debolezza della cura di stampo filantropico è il suo spontaneismo, che la rende difficilmente programmabile. Il volontariato in alcuni ambiti può abbondare, in altri essere carente. Inoltre è necessario tenere in considerazione che la carica filantropica può andare a esaurimento, a differenza del bisogno di cura, che invece può aumentare. Un’illustrazione letteraria convincente di questo scenario è offerta dalla protagonista del romanzo Attraverso la vita, di Sigrid Nunez5. La sua modalità di attraversare la vita è senz’altro caratterizzata da una buona disposizione verso il prossimo. Ma è messa alla prova da un’amica, che vorrebbe porre fine anticipatamente ai suoi giorni e le chiede di accompagnarla, creandole un conflitto di coscienza. E anche da quell’anziana signora che abita nello stesso palazzo della nostra eroina. Il figlio, che vive in una città lontana e non riesce a convincere la madre, sempre più fragile, a trasferirsi in una residenza appropriata, le chiede di andare regolarmente a fare una breve visita alla madre, per assicurare un controllo minimo.
Lei ci va, ogni giorno. Porta muffin e caffè. La vecchia signora si rivela una campionessa di lamentele: tutto il tempo, ininterrottamente, snocciola la sua litania di lagnanze. Non rivolge nessuna attenzione alla visitatrice, nessuna parola di ringraziamento: i muffin avrebbero potuto portarli gli elfi. Così, giorno dopo giorno. Finché la visitatrice benevola non ne può proprio più. Essere invisibile è frustrante; le continue lamentele esasperanti. È come se il buon samaritano della parabola evangelica, che si è preso cura della vittima dell’aggressione, esaurite le sue risorse filantropiche, decidesse di desistere. E quando un imprevisto porta uno sconvolgimento organizzativo, la nostra protagonista mette fine al suo volontariato e si allontana definitivamente dalla lamentatrice compulsiva.
Senza colpevolizzare nessuno, riconosciamo che la disposizione filantropica ha una sua precarietà. Quando si delineano i limiti del pur pregevole volontariato vediamo, con sollievo, profilarsi una cura con caratteristiche diverse: quella assicurata dai curanti per professione. Con questa modalità di cura le attività che nascono dallo slancio umanitario devono sapersi integrare.
La cura con abiti professionali
Alla ricerca di un’immagine simbolica della cura esercitata in modalità professionale possiamo ripiegare sul numero telefonico del pronto soccorso. Se fossimo negli Stati Uniti, non avremmo esitazione a indicare il 911 (“9-1-1” è appunto il titolo della fortunata serie televisiva). Qualunque sia il numero da chiamare (112, 118…), il presupposto è che in una emergenza – in particolare quelle che mettono a rischio la vita – ci sono professionisti il cui compito è di venirci in aiuto. In questo scenario la cura non ce l’aspettiamo da chi è legato a noi da vincoli di familiarità, né da un prossimo compassionevole, ma da un professionista sanitario. Ci sentiamo inseriti in una rete di rapporti sociali che ci garantisce di non essere lasciati soli quando ci accade di transitare dallo stato di salute a quello di malattia. La cura praticata da coloro che sono qualificati a farlo in quanto professionisti si presenta in modo diverso dalle due modalità che abbiamo preso in considerazione finora. Il tratto che spicca di più è forse il fatto che chi esercita un’attività di cura è pagato per farlo. Giustamente pagato; e non cessiamo di denunciare quanto, nella nostra società, medici, infermieri e altri professionisti della cura siano pagati poco e di reclamare migliori trattamenti. Il pagamento comporta chiari vantaggi: l’approccio professionale, gravitando lontano dalla pietas, non minaccia chi riceve le cure con sensi di colpa e caricandolo con l’obbligo morale di ricambiare; e non traendo ispirazione dalla filantropia non fa riferimento alla bontà d’animo di chi la eroga. Il contratto economico si rivela liberatorio nei confronti di legami insidiosi.
Chi esercita la cura in modo professionale ha ricevuto una formazione adeguata e si impegna a tenerla aggiornata. Inoltre è vincolato da un insieme di regole, che hanno il valore di impegni deontologici. Il più importante di questi è di non far dipendere le cure dalla qualità umana di chi le riceve: intimi come estranei, persone meritevoli come indegne ed esecrabili, vittime e persecutori, tutti hanno diritto alle cure sulla base del bisogno, non del merito. Prendendo in prestito il titolo shoccante del libro di David Foster Wallace: Brevi interviste con uomini schifosi6, possiamo affermare che le cure professionali vanno erogate anche a quelli e a quelle che possono essere qualificati come tali, ignorando programmaticamente la biografia di chi le riceve. È lo scenario esaltante delle cure professionali. I professionisti non sono né santi, né eroi: sono semplicemente – e grandiosamente – professionisti.
L’altro importantissimo titolo di merito delle cure professionali è il fatto di presentarsi come un diritto. Non le abbiamo meritate, eppure sono oggetto di una rivendicazione. Almeno nell’ambito di società che hanno fatto proprio il modello di una sanità universalistica, in cui le cure non spettano solo a chi ha la capacità economica di pagarsele, ma sono esigibili da tutti i cittadini. La cura è il legame che tiene insieme la società che ha fatto della solidarietà il valore fondante.
Il contesto in cui collochiamo questa modalità di cura è quello del servizio sanitario pubblico. Ovviamente la professione può essere praticata anche in senso privatistico, al di fuori della socialità che tiene unite tutte le persone in un certo contesto. Un minimo di spinta ideale è necessario per orientare i professionisti in questa dimensione della cura. Non possiamo non essere preoccupati quando le notizie giornalistiche ci informano dell’inflazione di domande dei giovani medici neolaureati per la specializzazione in medicina estetica, mentre non si trovano aspiranti che si orientino verso la terapia intensiva. Per non parlare del successo di medici cosiddetti “gettonisti”, che forniscono servizi su richieste emergenziali, svuotando il lavoro di cura di ogni continuità.
Un ulteriore motivo di preoccupazione è lo scivolamento da una sanità che almeno prometteva – anche se non sempre riusciva a garantire – “livelli essenziali di assistenza” verso un’organizzazione che parla di “livelli essenziali delle prestazioni”. La cura ridotta a prestazioni rischia di essere caricaturale: non ha più nulla in comune con la cura veicolata dal senso filantropico, ma neppure con quella che nasce dall’inclusione sociale. Non è più orientata a soddisfare bisogni di salute, ma a giustificare chi organizza servizi sanitari: si garantisce l’erogazione di una prestazione, senza chiedersi se e come questa incida sul benessere della persona e sul livello di salute della comunità. Difendere la sanità pubblica dalla seduzione del mercato è una battaglia di civiltà primaria ai nostri giorni. Non possiamo affidarla né alla predicazione, né all’esortazione morale: deve essere condotta con le pacifiche armi della politica.
Conclusioni
Il concetto intuitivo di cura ha mostrato un tessuto di notevole complessità quando ci siamo interrogati su chi eroga le cure, sui motivi che ispirano la cura stessa e quindi sulle diverse modalità in cui prende corpo. La cura ci è apparsa come un’arte pluriforme. L’abilità consiste nel riconoscere diritto di cittadinanza a tutt’e tre le forme di cura che abbiamo riconosciuto, senza escluderne nessuna. È necessario piuttosto saperle integrare, facendole intervenire quando e come è necessario.
Bibliografia
- Gruppo Solidarietà (a cura di). Storie di vita. Genitori e giovani con disabilità si raccontano. Moie di Maiolati (Ancona), 2024.
- d’Adamo A. Come d’aria. Roma: Elliot, 2023.
- Vecchiato T. L’azione volontaria. Dono fraternità bellezza sociale. Bologna: Il Mulino, 2021.
- Ogien R. Del profumo dei croissants caldi e delle sue conseguenze sulla bontà umana. Bari: Laterza, 2012.
- Nunez S. Attraverso la vita. Milano: Garzanti, 2022.
- Wallace DF. Brevi interviste con uomini schifosi. Torino: Einaudi, 2000.