di Mario Bertin. Tratto da Salmi, pag. 30-34., Servitium Editrice, 2001. In memoria dell’autore deceduto il 10 novembre 2024.
dall’Introduzione di Luce d’Eramo
Bertin apre il suo salmo cercando un senso “contro il richiamo del nulla” che poi quasi al termine gli si rivela essere proprio il “perfetto nulla” di Dio. Proprio perché il bisogno che il salmista ha di Dio non gli nasce da un aggrapparsi alla fede per reggere la fatica (l’ambascia) del vivere, ma gli sorge e cresce dentro da una solitudine incolmabile, la sua preghiera sprofonda nell’ignoto infinito senza contropartita, una preghiera totale e folle, autentica, la cui pienezza è nel vuoto d’ogni istante.
Non c’è altro sostegno alla nostra speranza.
Pensò Roberto. Una serenità quieta si impadronì di lui, di ogni sua parte.
Il bosco non gli era mai sembrato tanto misterioso e tanto quieto. Era come se lo vedesse per la prima volta. Eppure l’aveva misurato avanti e indietro nei giorni passati.
Avrebbe voluto essere obbediente e docile al suo segreto, come l’edera che pendeva dal tronco del grande leccio. Quel segreto che chiedeva in ogni momento di essere mostrato.
Andava quasi di corsa per una gioia che non riusciva a contenere e che gli era sconosciuta.
Si fermò a lungo in una radura. Intuì di dover fare dentro di sé il vuoto per lasciare che quella gioia si esprimesse in libertà. Secondo le sue leggi. In un dialogo intessuto di silenzi. Fare il vuoto del passato. E del futuro. Anche.
Bisognava morire a ogni istante. Si nascondeva in questo negarsi la sua verità. Era evidente. Adesso. Doveva farsi obbediente all’essere. Come aveva scritto il filosofo. Farsi strumento docile della misteriosa tenerezza che doveva esserci stata all’inizio del suo cammino. Per forza. E dalla quale si sentiva sopraffatto.
Da uno squarcio del bosco apparve d’improvviso il monte dirimpetto. Era il dono non preannunciato. E che nulla gli aveva fatto presagire.
Querce antiche si lanciavano come braccia protese sul vuoto delle valle. Disegnavano contro il cielo insospettati graffiti. Li fissavano nel tempo. Cicalecci d’uccelli si inseguivano. La brezza si alzò. Pareva salire dalla terra. Dai muschi. Dalle foglie morte. Si imbeveva del loro odore acre.
Roberto si era trasformato tutto nel suo sguardo. Era solo sguardo ora. Avvertiva incontenibile e confuso il desiderio di Dio. La voglia di amarlo. Lo implorò che gli insegnasse lui come fare, perché il cuore suo era ancora incirconciso.
- Ho paura dell’ignoto.
- E ciò che viene da te
- Che non conosciamo
- Non può essere ignoto.
- Ma stendo ugualmente verso i monti le mie mani aperte.
- Verso l’Oriente. Spalanco
- Gli occhi nel baluginio del terzo abisso sul quale si ripiega la mente quando esce da se stessa. So
- Che vacillerò sui piedi.
- Perché i nostri piedi non poggiano sicuri su terreni sconosciuti. E insicure
- Sono le mani quando si abbandonano al bastone che esse si sono fabbricato.
- So certo
- Le nostre sicurezze franeranno
- Un giorno
- E non resterà che accettare l’insicuro come nostra certezza.
- Devi capire. Viene il tempo quando
- La vita, lo voglia o no, si riduce al solo vivere.