di Ivo Lizzola. Pubblicato in La barca e il mare del 28 ottobre 2024.
Si parla molto delle ribellioni dei ragazzi nelle carceri. Ma il molto parlare non contribuisce.
La semplice punizione esclude, mette ai margini e non risolve nessun problema.
Educare è difficile ed educare fa sempre un po’ male
Una ribellione che “copre tutto con il rumore”
Il “caso Beccaria”, i ripetuti moti di ribellione dei ragazzi reclusi, le “risposte” dell’autorità istituzionale, le forme della riflessione, alcune piegature del dibattito di questi anni, sono davvero fonte di grande preoccupazione. Insistentemente Gaetano De Leo, psicologo giuridico tra i più grandi d’Europa’, sottolineava nei suoi testi e nei suoi interventi sulla devianza minorile che la “violenza calda”, quella agìta contro l’altro, contro di sé e contro le cose, “fa molto rumore”.[1]
Anzi è una violenza che “copre tutto col rumore”: nasconde, toglie l’attenzione dalle domande fondamentali: cosa (ci) vuole comunicare? quale segnale (ci) manda? cosa vuole esprimere? Di cosa sta nascondendo l’espressione in chi la sta agendo? A lui stesso, oltre che a noi.
Il rischio di identificare una persona con quello che ha fatto
La prima sfida è trovare la parola per dirla, per dirne narrazioni, moti, moventi, insorgenza, insistenza. Per riportarla nella comunicazione, nel senso, nel significato. E nella convivenza. Poi, con tutto il tempo ed il lavoro che servirà anche nella restrizione ricondurla alla responsabilità e alla valutazione, al giudizio, alla riconsiderazione di sé, alla relazione con altri, e col mondo. Qui può avvenire la vera maturazione di una “frattura instauratrice”[2] per l’identità e la biografia personale, non tanto là, nell’incandescenza dell’agito. Evitando il consolidamento, la cristallizzazione d’una “carriera criminale”. Poiché il rischio grande è di fissare nel gesto la identità di un giovane adulto facendolo diventare ciò che ha agito, sentito, giocato di sé. Ha un forte potere ordinatore il gesto deviante, il reato; può costituire identità e destini di ragazze e ragazzi fragili e disorientati, dalla immagine di sé frammentata, discontinua, scomposta e ricomposta nell’agire immediato e reattivo, in relazioni dure e fragili come cristalli.
Provvedimenti, atteggiamenti, sentimenti solo punitivi, stigmatizzanti, che separano e distinguono storie e biografie da contesti di vita comunitari e da relazioni, possono solo irrigidire e “ordinare” vicende di minori in avvii di “carriere”. La cultura securitaria può produrre proprio il contrario di quel che cerca, nell’ansia dell’immediatezza repressiva, e per ottusità o parzialità di lettura.
Un intervento serio e tempestivo per aprire nei contesti, e con le vite giovani coinvolte, serie ed esigenti esperienze educative e di responsabilità sociale può creare nel meccanismo reattivo deviante una frattura. Nella quale scoprire parti di sé affidabili, trovare espressione del disagio e della rabbia, aprire sensibilità al dolore d’altri, in esperienze sociali impegnative segnate da valori e inclusività, messe alla prova e spazi di libertà responsabile.
La sfida dell’educare
Nulla di semplice, certo, e lavoro per adulti che siano in grado di riconoscersi come persone entro giochi relazionali complessi, più che individui a cui sono stati attribuiti ruoli, donne e uomini competenti e appassionati, insegnanti, amministratori, operatori dei servizi, imprenditori, cittadini che curano le comunità, nelle loro risorse e nelle loro ferite.
Scoprire altro di sé, ritrovarsi in un altro ordine possibile e in legami nuovi e diversi è questione di prova di realtà (non solo di volontà), di pratiche che orientano scelte. Non può essere frutto di astratti richiami, o del solo sforzo di adeguare comportamenti a leggi e norme. È la sfida dell’educare, del costruire rapporti costruttivi tra le generazioni.[3]
Certo occorre superare prospettive riduzioniste e deterministiche. E vedere in profondità ed ampiezza. Per esempio vedere che non c’è una emergenza reati dei minori (erano più numerosi nel 2015/16); semmai lo è quella segnalata dai servizi di salute mentale che di minori si occupano.
Interrompere il costituirsi di carriere criminali – permettere ai ragazzi di riattaccare la spina dei e nei processi di socializzazione, come diceva Eligio Resta,[4] è un obiettivo difficile e complesso. Chiede percorsi inediti e alternativi per le persone, la possibilità di ridisegni e ridislocazioni in esperienze e prospettive che abbiano la forza, da un lato di far sostenere fratture biografiche, nell’identità, nei sistemi di significato e, dall’altro, di avviare un’organizzazione diversa del sistema di vita, del rapporto con il tempo.
Insieme è necessario creare novità, contraddizioni, nuove rappresentazioni e avvii di storie nei contesti di vita, specie in quelli che alimentano atteggiamenti, scelte e legittimazioni di devianza; nei contesti di anomia e di separazione indifferente.
Pasolini e l’atrofia del sentire
“Non c’è stata in loro una scelta tra bene e male: ma una scelta tuttavia c’è stata: la scelta dell’impietrimento, della mancanza di ogni pietà”, così scriveva dei ragazzi di vita Pier Paolo Pasolini sul Corriere della Sera il 18 ottobre del 1975 dopo una violenza su un senza fissa dimora. Pasolini, che sarebbe stato vittima dopo pochi giorni della violenza non frenata dalla pietà, segna bene la soglia sulla quale questa violenza si attiva: la soglia dell’atrofia del sentire, la “mancanza di ogni pietà”. Incapacità di sentire sé e sentire l’altro, del sentirsi nella relazione: al suo livello originario, là dove nasce la pietà, e si frena la cecità del gesto distruttore. Prima della morale.
Riprendere quel gesto in una narrazione, ritrovare sé e la pietà in una relazione ritrovata, assumere i significati e le conseguenze del gesto, a volte irreparabili, e riprendere faticosamente una possibilità di scelta e di risposta (risponderne), è il difficilissimo cammino che chiede tempo e un gioco delicato e solido tra vicoli e nuovi esercizi di responsabilità e di libertà. È il cammino che provano a sostenere educatori, psicologi, operatori coinvolti nell’azione educativa che noi chiamiamo riduttivamente trattamentale e riabilitativa.
Educare fa sempre un po’ male.
Nella stagione securitaria che chiede di applicare una strategia “educativa” centrata sulla dinamica premialità-punizione, normativa, ”efficace”, correttiva, selettiva, meritocratica, prestazionale, quel che si produce rischia di essere un disimpegno di fatto (e di coscienza) degli adulti. Perché dovrebbero provare ad ascoltare, a incontrare, ad aprire esperienze per e con le giovani vite? Richiami a norme, sanzioni, delega a “specialisti” correttori possono ben bastare! E così solchi, distanziamenti, sociali ed esistenziali rischiano di crescere nelle vite e nelle storie delle comunità.
- [1] G. De Leo, P. Patrizi, La spiegazione del crimine. Un approccio psicosociale alla criminalità, Il Mulino, Bologna, 1999; G. De Leo, La devianza minorile. Metodi tradizionali e nuovi modelli di trattamento, Carocci, Roma, 1990
- [2] M. de Certeau, La debolezza del credere, Città Aperta, Troina (Enna), 2006
- [3] M. Schermi, Il lavoro dell’educare. Lungo il cammino del crescere umani, Hoepli, Milano, 2024
- [4] E. Resta, Il diritto fraterno, Laterza, Roma-Bari, 2005