di Paolo Puppa. pubblicato in ytali. il 20 dicembre 2024.
Ci sono fratelli che non si parlano tra loro. Ne conosco diversi. Banali ragioni di eredità, contrasti magari provocati da cugnae curteae, ovvero cognate cortellate, innestati dalla formazione di nuove famiglie che spezzano intrecci fraterni. Oppure, e per me la prospettiva si fa anche più desolante, fratelli che si ignorano, non ostili fra loro, ma appunto indifferenti, dimentichi delle antiche complicità e contiguità fisiche. Se al contrario mi imbatto in solidarietà mantenute, in frequentazioni non solo festive non posso che turbarmi e commuovermi.
Questo perché questo legame rappresenta per me un mito personale. Fratello, al singolare intendo, e maschio. Non fratelli, (più sono, più si disperde l’investimento affettivo), non sorelle, da cui ci si separa necessariamente durante la crescita. Al limite, il misterioso numero duale, scomparso nelle lingue, sopravvive in questo fantasma personale. In fondo, anche il fratricidio, tra tutti i delitti perpetrati dentro la famiglia che uccide, mi sembra il gesto più efferato, più tenebroso e trasgressivo persino rispetto all’omicidio parentale, parricidio o matricidio che sia. Questo, nonostante spesso la nascita di una civiltà coincida con tale crimine, Romolo e Remo in primis.
Un fratello io l’ho avuto per la verità, Luciano. Tutti i Luciani del mondo mi sono cari, a prescindere. Nato sei anni dopo di me, l’ultimo della nidiata. Prima era venuta la sorella, io al centro. Il piccolo è arrivato quando mia madre aveva già quarant’anni, età a quel tempo sconsigliata per i parti. Una delizia la novità, una bella testolina coperta di riccioli bruni, una verve comunicativa, amata da tutti. I miei lo ostentavano come un trofeo durante le passeggiate domenicali, dopo la Messa.
Poi, a tre anni, un’epidemia di meningite l’ha travolto. Ricordo quando è stata prenotata con urgenza una lancia per ricoverarlo di sera all’ospedale Fate bene fratelli, sito a Cannaregio verso la laguna. Stavamo in sala da pranzo, in attesa, e mio padre singhiozzava, vanamente consolato da mia nonna. Mi pareva scandaloso vederlo piangere. Sensazione oscura riprovata assistendo alla proiezione di Ladri di biciclette, di De Sica, datato 1948, ma da me sofferto due lustri dopo, nella scena finale, in cui il bambino prende per mano il genitore in lagrime, assumendo lui la direzione del rapporto.
Mi pareva assurdo anche il fatto che mio padre non riuscisse a guarirlo coi suoi mezzi, essendo medico. A che serviva la medicina, allora? Non appena mi capita di passare in quella zona luminosa, a partire dal Ghetto, e sento quell’ospedale ergersi al di là di qualche fondamenta, anche adesso che è trascorsa una vita intera, il cuore riprende a tremare. Passavo infatti a trovarlo, trascinato colà da zie inflessibili e nel corridoio del reparto mi assalivano i suoi gemiti per le punture fatte alla spina dorsale. Dopo qualche mese, ci è tornato a casa, irriconoscibile. Sordomuto, regredito a mera animalità, giocava di notte colle feci. I primi giorni, ogni tanto gli uscivano dalla bocca spezzoni di frasi come un nastro che si riavvolgesse e io subito correvo esultante in cucina da mia madre incupita e nervosa, annunciandole che il fratello era finalmente guarito per miracolo. Ho passato la mia adolescenza a tentare di rieducarlo.
Con me, aveva reimparato a tenersi pulito. Poi si era invaghito delle spazzole, per passare poi alle palle. Se ne perdeva una, bisognava a tutti i costi trovarne una identica, altrimenti urlava disperato, tanto che noi ci precipitavamo a chiudere le finestre. Lo portavo anche fuori, e davanti ai banchetti dei fruttivendoli era una lotta continua, quando afferrava la frutta che ingoiava in fretta, lasciando basiti i commercianti. Albicocche, ciliegie, ossi compresi. E bisognava ogni volta spiegare tutto, e pagare.
Selvaggio, Luciano era rimasto però bello in modo tracotante e inutile. Dormiva nella cameretta accanto alla mia, e lo sentivo ogni tanto impegnato in una sessualità frenetica e solitaria. Impossibile interromperlo. Poco prima di spandere, sentivo il suo respiro farsi roco in mezzo ad un crescente sciacquio, come da un canale mosso. Non mi è chiaro se si trattasse di mera meccanicità, o se fosse in grado di associare il desiderio a qualcuno o a qualcosa. Mio padre lo lasciava nella sua camera cella, da cui non avrebbe dovuto mai uscire, secondo lui. Non c’era niente da fare. Non erano ancora i tempi di Basaglia.
Una volta, mi son permesso di domandargli perché non assumesse un qualche educatore, invece di spendere soldi nell’infinita argenteria che addobbava la mobilia. Se ne avevano i normodotati, perché mio fratello handicappato non poteva usufruirne? Per tutta risposta, mio padre mi ha inseguito a lungo per la casa, inferocito, per prendermi a schiaffi. L’ho odiato per un po’, ovviamente. Gli davo dell’ingrato. Adesso provo solo pietà per lui, per tutti noi, in quella famiglia scombinata.
A lungo l’ho accudito, mentre il genitore mi ripeteva che dovevo rendere per due, per me e per lui, a compensarlo nei risultati complessivi. Sarà da lì che mi è venuto forse il gusto del lavoro compulsivo, il dover essere in quanto dover fare. So solo che nell’età in cui i miei coetanei cominciavano ad andare a morose, io passavo ore e ore col fratello, obbligandolo a star seduto vicino a me, a impratichirlo nel riconoscere e distinguere forme e colori.
Una didattica sul disabile, la mia, decisamente improvvisata, e rozza. Aveva nove, dieci anni, e io lo mettevo di fronte a pratiche consone a infanti di due, tre anni. E anche questo mi umiliava ed esasperava. Pochi e grami i risultati. Alla fine, ho ceduto, e ho puntato alla mia esistenza, uscendo di casa e rinunciando al sacrificio di me stesso, ad un appartato eroismo. Ho preferito seguire carriera, studi, amori, la strada insomma consueta dell’ambizione personale.
I miei hanno tirato avanti per un po’, poi, quando era divenuto un cavallo matto che correva per le stanze, più forte dei calmanti, l’hanno scaricato in un Cottolengo nella provincia padovana. Là, con discrezione, ho ripreso a frequentarlo. Era un dozzinante, aveva una sua dimora personale, non vegetava nelle camerate comuni dal fetore nauseabondo. All’inizio, conservava la sua strana bellezza, incontaminata, rispetto a quegli omini omologati dai medicinali e dal trattamento puramente sedativo. Ragazzi, adulti e vecchi erano automi condotti per un’ora fuori, nei giardini idillici che circondavano, come avviene di solito, l’orrore dell’interno, veri scenari danteschi nell’iconografia di Gustave Doré.
Ci andavo almeno una volta al mese, portavo a lui cioccolata e mance per gli infermieri. I miei, liberati dalla convivenza dolorosa, non osavano approfittare del cambio di ménage, troppo stanchi per progettare un futuro diverso dalla rassegnazione e dall’avvilimento. Versavano la retta al dozzinante, senza spingersi mai nel Cottolengo. Di rado spuntavano laggiù una zia padovana e mia sorella. Di solito, lo vedevo assiso sulla poltrona in cui stava legato, gli ultimi anni, a evitare cadute. L’aspetto era mutato, appaiato del tutto alle pallide e informi sagome, dalla magrezza inquietante. La palla, mai lasciata, tenuta col braccio destro, e intanto portava lo sguardo sul vuoto ignorando il mio arrivo. Gli infilavo in bocca la cioccolata, tagliata in piccoli pezzi che lui inghiottiva ingordo e insieme infastidito.
Ero ormai solo l’uomo dei dolci, delle carezze rapide, e dei fugaci incontri. Ma faticavo a restare nella sala tra quelle allucinazioni, specie durante il pasto, condividendo odori e rumori dell’ambiente tumultuoso e stressante. In più, mi feriva la ciotola stracolma di pillole colorate, quello che restava di progetti terapeutici, di strategie di recupero che nella giovinezza rivendicavo con foga contro il padre medico, restìo a seguirmi in utopie pedagogiche a suo parere vaneggianti. Ciotola che l’aveva modellato a zombie senza forze.
Intollerabile era il tramonto, allorché si aggirava subdolo per le stanze il rosario registrato e gracchiante, suggello di una sanità privata a gestione economica religiosa. E questo suono mi metteva in fuga. Avrei dovuto invece dormire con lui, per proteggerlo come facevo in precedenza.
Quando ripartivo, la coscienza resa almeno in parte tranquilla per l’obolo di tempo che gli offrivo, gli lanciavo un rapido cenno di saluto. Ma se mi giravo all’improvviso, da lontano, scorgevo un guizzo di attenzione da parte sua, come se spiasse la mia persona, e ricordasse l’antica vicinanza. E a quell’occhiata, in qualche modo medusea, mi sentivo perduto. Era anche autistico, l’ho scoperto, alla fine, dalle cartelle cliniche. Ma nel colpo d’occhio che gli dedicavo dalla porta, assomigliavo per il carico di furore e di paura a John Wayne per l’analogo gesto fisiognomico nel mirabile Sentieri selvaggi, mio autentico fever movie del 1956, quando il personaggio che interpreta, Ethan Edwards, covava la camera piena di bianche sedotte dagli indiani e trasformate in creature dementi e farneticanti per il razziamo che condizionava il pur geniale John Ford. Prendevo la corriera, e il treno, e man mano che mi allontanavo tentavo di ridiventare marito, padre, professore, smettendo di essere fratello.
Una sera di vent’anni fa, proprio nel giorno del mio compleanno, squilla il telefono e temo che il suono disturbi il nipotino furlano, da poco ospite da noi, che stentava ad addormentarsi nella camera accanto. È la voce del medico del Cottolengo. Dopo alcune frasi incerte e insapori, mi comunica che il “povero Luciano” è mancato, per colpa di un’emorragia. Non ha sofferto, se n’è andato in collasso, senza penare troppo.
In un attimo, l’intera casa si accende di una luce nervosa. Mia figlia e mia moglie si precipitano ad abbracciarmi, mentre me ne sto rigido e inebetito. Il giorno seguente, dopo una notte trascorsa ad occhi sbarrati, corro in stazione e poi in autobus all’Istituto. Mattina di un gennaio nebbioso e freddo, adatto alla situazione. Lo trovo rigido, i piedi con calzini neri curvi verso le sponde del letto, la fronte diaccia, i tamponi sul naso e sulla bocca a bloccare nuovi flussi di sangue. Penso al nipotino, per distrarmi. Il piccolo mi promette che questa vita in qualche modo andrà avanti. Al suo fianco, scorgo la giovane badante, assunta negli ultimi tempi, affranta per aver perso una fonte sicura di guadagno, e mia sorella accorsa da Milano a recitare il ruolo della inconsolata.
Si decidono le procedure. Verrà bruciato, e le ceneri tenute nella casa della sorella stessa al Lido, per rituali esoterici. Meglio che calarlo in un gelido sepolcro di famiglia, dove tra l’altro non c’è posto. Le leggi sono per fortuna più tolleranti, e la Chiesa ha smesso di fare opposizione. I medici dell’Istituto, in particolare, sembrano incalzati da una strana smania, quello di liberarsi del corpo ingombrante, per non lasciar traccia di qualche eventuale imperizia e negligenza diagnostica.
Il giorno dopo, al funerale, la sorella guida le preghiere del coro e partecipa da protagonista alle liturgie. Io laicamente me ne resto al banco, mentre preti, suore e pazienti si alternano con discorsi di maniera, a concludere che adesso “il nostro Luciano” giocherà felice in Paradiso colla sua palla, il ragazzo di 54 anni. Mi domando ogni tanto se non si fosse ammalato come sarebbero oggi i nostri rapporti. Si sarebbero logorati, come avviene a un’amicizia, a un amore? E nondimeno se continuo a sognarlo che parla, che mi parla, sarebbe impossibile una deriva del genere. Andremmo assieme a teatro, noi due, vecchietti mansueti e cordiali. E mi vengono i brividi solo a trattenere un simile miraggio.
Il suo corpo, trasformato in un mucchio di cenere, sta come detto in un’urna collocato nella camera da letto della sorella, al Lido, tra candele e fiori secchi, alla riscoperta di usanze pagane, precristiane. In cambio, questo mio è un dolore privo di lacrime, privo di clamori, onda lunga che viene da lontano. Quando lo avverto al mio fianco, il palpito si presenta ambiguo, perché fatto di rimorsi, di nostalgie e di esasperazione nei riguardi della sofferenza. La sorella, nella villa al Lido, ha tenuto finché viva l’urna colle ceneri, poi passata alla figlia, in un altro appartamento. Non mi sono opposto, perché è tutto lo stesso, cadaveri inumati tra topi e vermi nel buio umido, oppure il fuoco che distrugge i resti della persona. Non vado al cimitero. Le tombe in caso sono dentro di me. E sono per di più l’ultimo superstite della mia prima famiglia.
Luciano, morendo, è divenuto pure la bella foto, una sorta di scalpo, che lo ritrae nel mio studio di adesso, sorridente nel giardino di casa prima dell’internamento. La palla stretta sul petto come un amuleto montaliano, l’immagine sporge da un colto della biblioteca, e sembra perdonarmi per averlo abbandonato. Ma si è riscattato anche dalla cattività, si è sbarazzato dall’interminabile manciata di tranquillanti quotidiani, tornando dentro di me, nei miei nervi e nella mia fragilità nascosta, dilagando al suo interno. Sebbene più giovane di me, è uscito prima di scena, stanco di attendere l’ultimo degrado degli anni, l’accumulo insoffribile di strazi fisici e di torpori snervanti, sazio della seggiola in cui veniva immobilizzato. Ora, ognuno di noi è una parentela determinata, anche se nel divenire anagrafico, può mutare collocazione e casella identitaria. Dentro di me, viceversa, io tradisco moglie, figli e nipoti in quanto sono sempre stato e sarò sempre prima di tutto un fratello. Questa la mia radice fedele finché respiro.