di Vito Mancuso. Stralci dell’articolo pubblicato in La Stampa del 2 gennaio 2025 e nel blog dell’autore
Non è un atteggiamento esclusivamente cristiano, ma è presente in tutte le civiltà. Da sempre avvertiamo la magia dell’inizio di un anno, la poesia del ricominciare. Che senso ha tutto ciò? la poesia del ricominciare, dell’avere a disposizione un tempo del tutto nuovo in cui si può essere diversi, migliori, magari persino più buoni. Non c'entrano nulla la fede e la religione, si tratta qualcosa che viene prima, che più profondo, più primordiale, e che ha a che fare con la nostra relazione col tempo. Il tempo: quel mistero dell'essere che, come diceva Giordano Bruno, “tutto toglie e tutto da”.
“Tutto toglie”: un anno passato e non tornerà più, se ne’ andato dove sono finiti tutti gli altri, in quell’antro senza fondo che chiamiamo passato.
“Tutto dà”: un anno intatto davanti a noi con la sua distesa dei giorni e le loro promesse, in quel tunnel che forse ha una luce là in fondo forse no che chiamiamo futuro. Ma come rapportarci a questa distesa dei giorni con le loro promesse, che poi il tempo della vita che ci rimane da vivere, e che non sappiamo quanto lungo sarà? Ebbene, io penso che per la nostra esistenza: tutto dipende dalla domanda, in particolare dalla domanda che rivolgiamo a quel tunnel che si chiama futuro.
Credo che i più pongano domande unicamente in prospettiva materiale, per non dire materialistica: sperano cioè nella fortuna (il biglietto vincente), nel successo, in un evento che arrivi nella loro esistenza e la trasformi. Non sbagliato, molto umano, ma si tratta di domande che esprimono una visione limitata, funzionale alla dimensione orizzontale e individuale dell’esistenza (un po’ come quel libro di qualche anno fa: Io speriamo che me la cavo).
Ben diversamente è l’esperimento che si configura quando la domanda sulla vita assume un più ampio respiro: non si attende semplicemente qualcosa che migliori la vita, ma si spera nella vita nella sua totalità: che abbia un senso, una prospettiva, un fine, oltre che una fine. In questa prospettiva si dispone l’esperimento ponendo alla vita, come guardandola negli occhi, una domanda radicale: Vita, cosa sei? Perché ci sei? Da dove vieni? Dove mi conduci? Che ne sarà di me, di noi, del tutto?
La risposta, ovviamente, non la sapremo mai, la vita non una signora perbene che risponde alle domande, neppure alle lettere. No, la vita è una Sibilla, un’antica divinità che emette responsi ambigui e che richiedono l’investimento dell’energia personale per poterli interpretare. La vita per rivelare qualcosa del suo sapore, richiede che il soggetto si pronunci, si esponga e per così dire creda in lei. Questo pronunciamento o esposizione o fede del soggetto verso la vita la possiamo chiamare speranza.
Di solito si ritiene che la speranza sia un atteggiamento tipicamente, o addirittura esclusivamente cristiano, ma non è per nulla così; per il cristianesimo la speranza è molto importante essendo una delle tre cosiddette “virtù teologali” (fede, speranza, amore), ma altrettanto vero che la speranza attiene alla vita umana in quanto tale. Credo che non vi sia speranza più bella di questa: che vi sia qualcosa di noi che il tempo non possa togliere.
sintesi di Alessandro Bruni
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