di Anna Stefi. Pubblicato in Doppiozero il 9 febbraio 2025. Sintesi di Alessandro Bruni.
In terza liceo, quando li incontro, i miei studenti, per lo più, li sopporto poco. Non li capisco, il loro linguaggio raramente mi incuriosisce. In quinta, per lo più, ne sono innamorata. In terza voglio che si accendano per la filosofia e non accade; in quinta mi interessa la differenza che sono diventati, mi appassiona il loro saper mettere parole e, soprattutto, mettere in parola, quella differenza. In terza, come in quinta, mi preoccupo, mi entusiasmo, mi angoscio e mi compiaccio: misuro la mia impotenza; cerco soluzioni; leggo successi e sconfitte; valuto. La vita di insegnante si svolge tra questi poli, ingombrata dal mio io e da un discorso sociale che utilizzo come metro e chiave di lettura.
C’è poi un altro incontro, quello nella stanza di analisi. L’età è la stessa: tredici, sedici, oppure diciotto anni. Non ho davanti una classe, ma un volto soltanto. Non ho risposte, né soluzioni. E non ho nemmeno scadenze, né fretta.
Niente di sorprendente, in linea teorica: la posizione di insegnante e la posizione di psicoanalista sono differenti, le conseguenze che ho tracciato vengono da sé.
Gustavo Pietropolli Charmet, nel suo ultimo libro, mette al centro della pratica clinica il rapporto con un mistero: Adolescenti misteriosi. Cosa è questo mistero e cosa c’entra con questo lungo preambolo?
Adolescenti misteriosi è un libro fatto di nomi propri: c’è anche Lu, che è un nome, e non il solo, di Narciso. Charmet ci invita, procedendo – sempre per fare spazio a Kierkegaard – più per narrazioni che per concettualizzazioni, a mettere al centro l’assoluta differenza che l’adolescenza rappresenta. E a prenderla sul serio.
Charmet è molto chiaro: “i ritirati sociali e le anoressiche sono adolescenti che hanno detto ‘no!’ a un modello di vita e a un universo di valori secondo loro sbagliati e si sono smarcati dai modelli prevalenti: molti di loro hanno esagerato e hanno perso. Se vogliamo che ci siano meno vittime civili bisogna organizzare una tregua e corridoi che consentano ai ragazzi di fare altre scelte, pena la morte o la pazzia”.
Anche l’adolescente è all’interno di questo stesso discorso sociale che noi, come adulti, subiamo. Charmet lo sottolinea più volte: un adolescente non è soltanto figlio dei propri genitori, è immerso in una narrazione fatta di miti, ideologie, mode. Tre sono in particolare i valori sociali drammaticamente pervasivi per un giovane uomo e per una giovane donna: la competizione totale e spietata; la negazione della morte e del dolore; il dominio degli ideali, in particolare dell’ideale di bellezza.
Charmet scrive senza ricorrere a etichette psicopatologiche: “rifiutare il linguaggio significa non cedere all’incasellamento dei ragazzi dentro una patologia, la pratica clinica ci mostra quanto siano capaci, all’occorrenza, di imitarle quasi tutte”. Un adolescente in crisi non è un malato mentale: la sofferenza appartiene al vivere, e, ad ammalarli, e ad ammalare anche noi, è spesso il negare questa dimensione tutta umana.
Educare e curare restano posizioni differenti, entrambe impossibili. Questo impossibili è, a ben vedere, un gran sollievo per il complicato rapporto che anche noi, benché adulti, abbiamo con l’ideale: se qualcosa è impossibile, fallire è lecito. Vale la pena tentare, dunque, un tentare che mi pare si possa tradurre in un imparare a non credere troppo alle soluzioni universali, in uno smetterla di annullare nel pensiero la realtà, in un lasciare da parte non solo le diagnosi che tanto ci spiegano e placano – dandoci strumenti per il presente e previsioni per un futuro già scritto –, ma anche i miti sociali che noi stessi patiamo, così come l’ostinata tentazione che sempre abbiamo di leggere l’esistente attraverso il già esistito.
sintesi di Alessandro Bruni
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