di Andrea Gandini. Economista, analista del futuro sostenibile.
Le prime azioni di Trump (ma anche il suo programma elettorale) prefigurano una rottura dell’America liberale che abbiamo conosciuto: meno libero mercato e più sovranismo, meno partecipazione alle Organizzazioni Internazionali e più colonialismo, meno spese per il controllo del mondo e più attenzione agli interessi degli americani. Così almeno sperano quei 77 milioni di americani, non certo tutti ricchi, che l’hanno votato e che hanno visto ridursi lavoro e salario sotto i governi dei Democratici. Trump critica la decisione dell’onesto presidente Jimmy Carter di riconoscere nel 1977 il diritto di Panama a controllare l’omonimo canale, in quanto minaccia gli interessi “nazionali” e già Reagan negli anni ottanta aveva proposto di uscire dall’Unesco.
Trump vuole decidere da solo e non avere i vincoli e contrappesi tipici della democrazia liberale. Nei prossimi due anni lo può fare e vedremo cosa succede. Per ora ha anche l’appoggio di tutto il mondo del business (finanza e grandi multinazionali) che sperano di fare affari anche con lui e poter bloccare le azioni degli antitrust (sia USA che UE), evitando la concorrenza con piccoli nascenti competitor.
Zelenskij, capendo l’aria trumpiana degli affari che tira, vuole entrare nelle sue grazie non continuando a chiedere soldi per armi per una vittoria che lui per primo ora dice impossibile, ma “siamo felici di intensificare la cooperazione tra le industrie minerarie dei nostri due paesi”. Parlando come si mangia significa: siamo felici di svendere a condizioni privilegiate agli americani quel che ci resta dei giacimenti sotto terra delle terre rare ucraine. Agli europei che pure hanno speso la metà di quanto hanno stanziato in armi gli Stati Uniti si daranno le briciole e il 30% delle terre rare ucraine finirà nelle mani dei russi dopo l’avanzata dell’esercito negli ultimi 12 mesi, cosa che non sarebbe certo successa se si fosse negoziato sin dall’aprile 2022 (a parte la macelleria umana).
I dazi che Trump vuole imporre sono un modo per tornare al mercantilismo, la prima teoria economica del 1600 quando, influenzati dalle conquiste coloniali (e dai vantaggi che ne derivarono col commercio), si sosteneva che la Ricchezza di una nazione derivava dal mercanteggiare al fine di accumulare ogni materia prima (tra cui oro e schiavi) proveniente dalle colonie. Oggi sono materie prime come le terre rare e le rotte marittime. Gli Stai Uniti non vogliono inoltre più svolgere il ruolo di consumatore di ultima istanza svolto per decenni, che chiudeva il deficit di domanda interna delle aree in surplus (Cina e Germania su tutte).
Qualcosa Trump potrà fare tra minacce e dazi veri, del resto la nostra Iva al 22% cos’è se non un dazio all’import, visto che negli Stati Uniti l’iva federale non esiste e sono i singoli Stati che applicano una “sales tax” che varia dall’1% all’11%. Ma in realtà dietro al mercantilismo ci sono altre strategie, come fare più affari a spese dei vassalli occidentali e rafforzare la morente manifattura made in Usa ormai vicina al collasso (ha 5 milioni di dipendenti rispetto ai 4 dell’Italia e a 8 della Germania) che determina il più grande deficit commerciale al mondo (-1.210 miliardi nel 2024, +14% sul 2023; era quasi a zero 25 anni fa). Nei servizi l’avanzo è invece di 293 miliardi e nel complesso la bilancia dei pagamenti è in deficit per 917 miliardi.
Dopo l’incontro col primo ministro giapponese Ishiba, Trump ha trasformato quella che era una pericolosavendita (per l’interesse nazionale USA) della US Steel (acciaio) ai giapponesi della Nippon Steel (per 15miliardi di dollari), in un enorme investimento in Usa “a favore del lavoro americano e dell’industriamanifatturiera USA”. Dopo questo accordo per i dazi contro il Giappone (che ha un avanzo commerciale con gli USA di 68 miliardi annui) “si vedrà” ha detto Trump. Così i dazi contro l’Europa servono per convincere gli imprenditori europei a investire negli Stati Uniti (Elkann ha già dichiarato che investirà 5 miliardi con Stellantis) per creare lavoro americano e rafforzare la loro manifattura. Anche a Gaza si vorrebbe usare la fine della guerra per giganteschi affari a vantaggio degli interessi nazionali Usa.
Operando in questa direzione Trump smantella parte del capitalismo che abbiamo conosciuto con la globalizzazione che mescolava liberi scambi con disuguaglianza, m anche svilendo alcune mitigazioni alla logica del puro capitalismo predatorio, tipiche della cultura liberale come: antitrust, vera concorrenza, welfare, tutela dei diritti delle minoranze, indipendenza della magistratura, della stampa, libere elezioni. Tutti aspetti che si sono molto deteriorati sotto lo tsunami della globalizzazione e degli stessi Governi dei Democratici a partire dal 1999. Si pensi solo all’uso della forza e della guerra (della politica e della finanza) per imporre certi interessi nazionali (Belgrado e Kosovo 1999, Afghanistan 2001, Iraq 2003, Libia 2011, Maidan in Ucraina nel 2014, UE come mero mercato) in quanto si credeva di essere diventati i padroni del mondo.
L’ascesa di Cina e Russia e dei Brics, organizzatisi dal 2009 e favoriti proprio dalla globalizzazione americana, ha avviato quel declino USA che ora Trump vorrebbe fermare. Al di là infatti della narrazione delle élite europee (e Nato) sui super poteri degli USA, dell’Intelligenza Artificiale, del dominio sul mondo del dollaro e della finanza anglosassone, gli Stati Uniti hanno serie debolezze legate alla disgregazione in atto della società americana, ai conflitti crescenti sull’immigrazione e al gigantesco deficit commerciale dovuto alla scomparsa della manifattura che ha fatto scoprire come le guerre (anche quelle future, se non sono nucleari) si perderanno tutte contro Cina e Russia per il fatto che i soldi non sostituiscono nè gli eserciti (uomini in carne ed ossa da mandare al macello), né la fabbricazione di armi e munizioni (ci vuole la vile “terra” della manifattura e non solo il “cielo” di starlink di Musk).
Daren Acemoglu (recente premio Nobel in economia) e Francis Fukuyama (politologo) hanno scritto su Policy che solo un liberalismo rifondato può contenere il populismo autoritario in America e in Europa. E forse c’è bisogno anche di qualcos’altro visto che proprio Fukuyama non ci ha preso per niente con “la fine della storia” nel 1992. Tra Trump e Musk (e anche le altre big company) si profila uno scontro a breve perché Trump ha preso i voti di 77 milioni di americani che vogliono salari e benessere in contrasto con la logica dei profitti delle big company e di Musk.
Se l’America sceglie il neo colonialismo (dazi e mire coloniali su Canada, Panama, Groenlandia, Messico, Gaza come riviera di lusso, le terre rare dell’Ucraina, l’Europa come eterno vassallo…), fuori i migranti significa entrare in collisione non solo con le big company ma anche con Cina, Brics e resto del mondo. Ecco perché può fare la voce grossa soprattutto coi suoi vassalli: Giappone, Corea del sud, Canada e soprattutto Europa, ultimo alleato vassallo senza guida politica e quindi alla sua mercè (27 nani alla corte di Trump), con probabili effetti di prossima disgregazione.
Per rifondare il liberalismo (come dice Acemoglu) bisognerebbe ridimensionare i grandi tecno-feudatari delle big company del tech (Elon Musk per primo), ridare spazio all’antitrust e alla concorrenza delle piccole e medie imprese, alle norme a favore degli umani sull’Intelligenza Artificiale, rilanciare welfare e salari fermi da 40 anni, occuparsi dei diritti sociali e delle disuguaglianze, organizzare un’immigrazione legale dignitosa, rilanciare il multilateralismo equo, temi che sono stati abbandonati da decenni e che certo non saranno ripresi da Trump. Vedremo come andrà a finire, ma è probabile che si affermi un fenomeno non nuovo in America e cioè quello del ritorno ad un nazionalismo sovranista che si andrà scontrando con i nuovi attori emergenti nel mondo (Cina, Russia e Brics).
L’Europa purtroppo è del tutto assente. Potrebbe svolgere un ruolo enorme nel mondo basando lo sviluppo umano su pace, diritti e welfare per non soccombere ai dazi americani, favorendo molto di più la domanda interna, cioè i consumi dei propri cittadini, riducendo la dipendenza da merci, gas e petrolio che provengono dagli Stati Uniti, favorendo “made in Europa” come si è fatto con Airbus ma aiutando anche le piccole e medie imprese (e non solo i “campioni”) e su beni che rispondono a necessità di benessere reale e non inseguendo il riarmo voluto dall’alleato USA. Spazi fiscali non ci sono per fare entrambe le cose e la difesa si può fare riorganizzandosi e spendendo meno degli attuali 340 miliardi dei 27 nani (3 volte la Russia).
Svolgendo poi un ruolo autonomo nel mondo, rifondando tutte le Istituzioni internazionali (a partire dall’ONU) sotto il segno dell’equità, del giusto equilibrio e non come ora sotto l’egida dell’America e dei potenti di turno usciti dalla 2^ guerra mondiale. La grande maggioranza dei paesi del mondo sarebbero d’accordo e l’Europa ne avrebbe un enorme vantaggio morale, economico e commerciale. Si tratterebbe di ripartire non da zero ma da tre, anzi dai sei fondatori. L’alternativa sarà un lento declinare come la nostra manifattura che cala da 22 mesi. Tutt’altra Europa di quella attuale…un po’ di Trump ci farebbe bene (nel rinsavire).
Nota esplicativa di Alessandro Bruni sul trumpismo dilagante. Questo blog non ha come fine l’esposizione di situazioni politiche e partitiche né per quanto riguarda l’Italia, né per altre nazioni. Ciò che ci interessa sono le ricadute sociali che la politica nazionale e internazionale determinano nella qualità della vita di persone comuni quali noi siamo. Pertanto, il prevalente interesse per la nomina di Trump alla presidenza degli Stati Uniti ha per noi riflesso per quanto avrà sulle persone svantaggiate per conflitti armati, povertà, alimentazione, sanità. A fornire informazioni, dalla geopolitica allo scontro tra poteri, al determinare vinti e vincitori su qualsiasi scena, non mancheranno i media cartacei e digitali scrivendo di cronaca politica e partitica, di schieramenti, di conflittualità sovraniste, di ambigui vassallaggi, di indicazioni di vincitori e vinti. Noi continueremo a guardare a coloro che sono costantemente vinti, al mondo degli emarginati, dei perdenti, degli sfiduciati. Saremo poca cosa, ma ci interessano più le riflessioni post eventi politici, le riflessioni non urlate, ma confrontate con colloqui sereni al tavolo di cucina tra la nostra famiglia e i nostri amici fraterni di ogni posizione politica essi siano. I post che pubblicheremo sul trumpismo dilagante avranno questo fine e il nostro schieramento sarà sui contenuti sociali che il trumpismo determinerà con la ferma proposizione di non essere sudditi di nessuno. Non ci preoccupa essere dei perdenti liberi.