a cura di Alessandro Bruni. Stralci con sintesi tratti da Scienza in rete sull’argomento
di Eva Benelli e Maurizio Bonati. La salute di giovani transgender in mani transfobiche? Pubblicato in Scienza in rete il 20 maggio 2024.
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Il mondo biomedico ormai riconosce ampiamente che sono tre i parametri che concorrono a definire l’identità sessuale: sesso, genere e orientamento sessuale. Al primo corrisponde il corpo sessuato maschio, femmina o con varianza intersessuale, al secondo il senso di sé, il sentirsi appartenere a universo maschile, femminile o a nessuno dei due e quindi a identificarsi come uomo, donna o persona non binaria. Infine il terzo aspetto riguarda la direzione dei propri desideri sessuali. Questi tre aspetti possono essere allineati e portare a un agevole riconoscimento di identità sessuale, oppure disgiungersi in modi e intensità diverse dando origine a tutte quelle lettere che compongono la sigla Lgtbqia+. Ma non c’è niente di ideologico o di “teorico” in questo, non c’è una scelta, un volersi ascrivere a una categoria o a un’altra, si tratta invece del riconoscimento della complessità biologica dell’appartenenza sessuale nella nostra e in altre specie, come peraltro confermano ormai anche molti studi etologici su animali più o meno vicini a noi Homo.
Si parla di incongruenza o diversità di genere, quindi, quando una persona sviluppa un’identità di genere differente da quella che le viene assegnata alla nascita in base alla sola osservazione degli organi genitali esterni, si parla perciò di persone transgender e gender diverse, in sigla (che forse aiuta e forse no) Tgd.
Come trattare la sofferenza?
«Essere Tgd è un aspetto previsto dello sviluppo umano e tutte le identità di genere possono essere considerate possibili variazioni dell’identità sessuale di una persona, come è stato dichiarato univocamente dall’Organizzazione mondiale della sanità e dall’Associazione psichiatrica americana. Le persone adolescenti Tgd possono provare una intensa sofferenza a causa della loro incongruenza di genere, sia psicologica che fisica. Il disagio psicologico sembra derivare in gran parte dal pregiudizio sociale e dallo stigma di coloro che non riconoscono l’esistenza di una varianza di genere come normale espressione dell’ampio spettro, in cui l’identità di genere può svilupparsi», così scrivono diverse società scientifiche a gennaio, ma di quest’anno, intervenendo nella bufera scatenata intorno al ricorso a un farmaco cosiddetto bloccante della pubertà, la triptorelina.
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I dubbi, quelli veri
Tra gli argomenti che sostengono la necessità di rivedere se e come continuare a ricorrere ai farmaci bloccanti della pubertà, ci sarebbe il fatto che diversi Paesi finora antesignani nella loro somministrazione hanno promosso una revisione delle indicazioni per il trattamento della disforia di genere. Tra questi la Svezia, che nel 2022 ha ridotto drasticamente la somministrazione dei bloccanti puberali ai minori con incongruenza di genere, ma dall’altra poco più di un mese fa, 17 aprile, ha introdotto una riforma per facilitare il cambiamento legale dei documenti e l’accesso ai trattamenti medici per l’affermazione di genere.
Tuttavia, a pesare è soprattutto quello che è avvenuto in Inghilterra: non solo la chiusura della Tavistock, l’unica struttura che somministrava la terapia bloccante della pubertà, ma il completamento della revisione quadriennale sugli interventi medici per le persone giovani Tgd, la cosiddetta Cass Review. La relazione, che prende il nome da Hilary Cass, una pediatra in pensione nominata dal Servizio sanitario inglese, conclude che per la medicina affermativa del genere non esistono dati e dimostrazioni di efficacia affidabili e raccomanda perciò di limitare l’accesso ai farmaci bloccanti della pubertà. Tuttavia, se in un primo momento questa revisione è stata considerata come una vittoria delle posizioni che si oppongono al trattamento farmacologico dei giovani Tgd, in realtà stanno ora affiorando numerose critiche metodologiche sui criteri utilizzati per mettere a confronto e valutare i diversi studi. Studi che, peraltro sono di piccole dimensioni e non recenti, come evidenziato da una metanalisi del 2017 e con pochi aggiornamenti (per esempio Luo).
di Maurizio Bonati. Se il corpo cambia, cambia l'anima, cambia la società: Emilia Peréz Pubblicato in Scienza in rete il 24 gennaio 2025.
Un’ovazione di nove minuti all’anteprima del festival di Cannes, il golden globe per il miglior film musicale, 13 nomination agli Oscar, ma anche tante critiche in Messico, ancora prima dell’uscita nelle sale e ora un alternarsi di commenti positivi e negativi sulla stampa italiana ed europea. Emilia Perez racconta di un boss del narcotraffico che affronta un percorso di riassegnazione di genere e pone a noi spettatori domande esplicite e sotterranee. E, con buona pace di Trump che riconosce i soli generi maschile e femminile, induce a pensare ai corpi, anche rispetto alla cultura.
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Consapevolezze precoci
«Lo so da quando avevo 4 anni. Vedevo altre ragazze e dicevo: "Voglio essere così"». Lo dice Karla Sofia Gascón in un’intervista, ma è quello che dice anche Manitas Del Monte al chirurgo che raccoglie l’anamnesi prima di decidere se operarlo. Quindi «ben prima della transizione, sanno già quello che vogliono essere». Con quale motivazione? «Se il corpo cambia, cambia l'anima. Se l'anima cambia, cambia la cultura. Se la cultura cambia, cambia la società».
Va bene, è solo un musical, ma induce a pensare ai corpi anche rispetto alla cultura, al percepito e al rielaborato personale di ciascuno. Quindi, non sarà che una parte della collettività messicana (ed europea e italiana) che è insorta contestando il film, si sia sentita vittima violata in “un sentimento collettivo” di fronte alla riassegnazione di genere e all’angoscia di castrazione che il percorso delle persone transgender da maschio a femmina suscita? Quel sentimento collettivo cui si riferisce Jung (Sulla questione dell'intervento medico. Opere, volume XVIII, Bollati Boringhieri 1993).
Già dal 2012: il protocollo olandese
Altre domande affiorano oltre lo schermo. Per esempio: che cosa sarebbe successo se la disforia di genere di Manitas Del Monte fosse stata trattata per tempo, in età puberale? Ovviamente non lo sappiamo, è anche difficile ipotizzarlo. Sì, perché la valutazione dei vari interventi psicologici e farmacologici nella disforia di genere in pubertà è scarsa e l’esito è affidato più a raccolte di case stories e non a studi clinici ed epidemiologici formali, sia a livello nazionale che internazionale. È anche il parere del Comitato Nazionale per la Bioetica, che nel dicembre scorso si è infine pronunciato sull’uso della triptorelina per il trattamento della disforia di genere che è consentito in forma off-label da una determina dell’Agenzia del farmaco del 2019.
Dopo tanto clamore, polemiche e annunci, che abbiamo raccontato qui, il Cnb nei fatti ha riconfermato quanto già comunicato nel 2018. Tutto questo sebbene a livello internazionale il protocollo di trattamento, prima psicologico e poi anche farmacologico, sia pressoché comune, il cosiddetto protocollo olandese, pubblicato già nel 2012. L'approccio olandese alla gestione clinica dei bambini prepuberi di età inferiore ai 12 anni e degli adolescenti a partire dai 12 anni con disforia di genere raccomanda una «valutazione approfondita di tutti gli aspetti vulnerabili e, quando necessario, un intervento appropriato». Aspetti vulnerabili difficili da valutare e intervento appropriato da garantire (anche) al giovane Manitas Del Monte, ma da tempo raccomandati per soggetti prepuberi o postpuberi con disforia di genere.
Quello che serve, tuttora, è un maggior numero di dati scientifici validati sull’efficacia e i rischi dell’uso dei bloccanti della pubertà, prodotti da studi clinici indipendenti finanziati anche dal ministero della Salute (come raccomanda il Cnb) e che comprendano la valutazione dell’intero percorso psicoterapeutico e psicologico, eventualmente psichiatrico e clinico-farmacologico a breve e a lunga distanza.
I pregiudizi che ostacolano invece di accompagnare
Della triptorelina il film non ci parla, ci dice solo della terapia ormonale sostitutiva inefficace durata due anni prima dell’intervento di riassegnazione di genere. Ci dice però degli stessi pregiudizi, politici e culturali, che ostacolano invece di accompagnare chi ha bisogno di fare chiarezza per decidere se intervenire sulla propria identità di genere a partire dalla giovane età. Non possiamo sapere gli effetti di un percorso terapeutico precoce sulla disforia di genere di Manitas Del Monte, magari non sarebbe diventato narcotrafficante, con l’indotto di illegalità che si porta appresso.
Eppure è una domanda che la realtà ci pone quando i pregiudizi e le contrarietà prevalgono sull’imparzialità, l’obiettività, e l’equità di accesso a un diritto. Emilia Peréz questo diritto se l’è preso lottando per i propri sogni. (Quiero quererme a mí misma Querer, sí, mi vida Querer, sí, lo que siento (es mi camino) Es mi camino Quiero quererme a mí misma (mi camino) Quererme así, toda (es mi camino) Quererme así como soy (mi camino)). Forse perché era Manitas Del Monte, e gli altri?
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