di Stefano Allievi. Sociologo del mutamento culturale. Pubblicato nel blog dell'autore il 5 febbraio 2025.
Forse è un bene questa assurda guerra dei dazi. Pre-industriale e pre-capitalistica, verrebbe da dire pre-civile, persino primitiva, nel merito. Arrogante e bullizzante nei modi. È un bene, perché è uno specchio che ci fa vedere quello che siamo diventati. E tanto più in quanto, nella forma scelta dagli Stati Uniti e da Trump (“la più stupida guerra commerciale della storia”, l’ha definita il Wall Street Journal, quotidiano dell’establishment che il presidente americano l’ha visto con simpatia), la giudichiamo, a ragione, assurda e controproducente per loro, oltre che dannosa per i nostri interessi. Mentre non è altro che una accurata descrizione delle nostre pulsioni profonde e al contempo quotidiane, che tuttavia non giudichiamo allo stesso modo: nei confronti delle quali, anzi, siamo incredibilmente autoindulgenti. E non fa che mostrare, in economia, quello che sempre più spesso diciamo – e, peggio: facciamo – nella società. Non quella degli altri: la nostra. Trump siamo noi. I dazi sono sempre più spesso il nostro modo di ragionare. In ambito sociale, culturale, politico.
Perché? Perché la logica dei dazi è esattamente la stessa che applichiamo ai muri nei confronti dei migranti – l’unica differenza rispetto ai dazi è che si tratta di un nemico anche interno (un capro espiatorio, si sarebbe detto in altri tempi), non solo esterno, e i muri non sono solo quelli materiali, alle frontiere, ma anche quelli nelle coscienze, nei ragionamenti e nelle politiche (discriminatorie) adottate. È la medesima che è alla base della chiusura aprioristica nei confronti di culture e religioni che non conosciamo, ma ci permettiamo di giudicare con stupefacente superficialità.
È anche la stessa che applichiamo alle persone diverse da noi per opinione politica, orientamento di genere, ma anche lingua, colore della pelle, e persino vestiario. È ancora la medesima che ci fa dire che quello che conta è solo la nostra nazione, o la nostra regione, o il nostro comune, e chissenefrega degli altri: prima noi, chiunque sia questo noi, a prescindere dal fatto che sia più meritevole di altri – ciò che viene dato per scontato, senza bisogno di prova. Infine, è quella che ci spinge a farci solo i nostri interessi, a sparire dallo spazio pubblico e non interessarci alla cosa pubblica e ai beni comuni, non votando nemmeno più, o partecipando solo per garantire i nostri interessi e quelli della nostra bolla, della nostra lobby, classe, ceto, categoria o professione.
Trump ha solo il merito di riassumerli tutti insieme e rivendicarli platealmente, questi comportamenti. Ma non è l’unico. Trump rappresenta, per così dire, lo spirito dei tempi, e lo fa benissimo. Al punto che forse, se non ci fosse, bisognerebbe inventarlo. Perché alle volte, anche alle società, come accade alle persone, serve un sonoro schiaffo – ideale, morale, valoriale, oltre che, come in questo caso, economico e politico – per ritrovare il senso di realtà, per accorgersi che al centro del mondo non ci siamo solo noi, che a furia di contemplare solo il proprio ombelico si perde legame sociale, che l’egoismo non salva nemmeno gli individui (o gli stati: lo vedremo presto anche negli Stati Uniti), figuriamoci le società, che la chiusura nostra produce la chiusura altrui.
Che i muri, insomma, che siano materiali o immateriali, sotto forma di filo spinato o di dazi, o anche solo di opinioni, chiudono fuori – o si illudono di farlo – le nostre paure, ma finiscono per chiuderci dentro, a combattere i nostri stessi fantasmi, con sempre meno capacità e risorse, perché abbiamo appunto solo le nostre.
È già successo, nella storia, e può succedere ancora, perché il vaccino contro l’imbecillità umana non è stato ancora inventato, e non lo sarà mai, e comunque ci saranno sempre dei no-vax che si rifiuteranno di assumerlo. Anzi, le nostre difese (immunitarie?) si sono, in questi anni, indebolite. Per cui, o ci svegliamo, ci guardiamo allo specchio, ci rendiamo conto di quanto siamo imbruttiti, e ne traiamo delle conseguenze, adottando delle contromisure, o ne pagheremo il prezzo.
Nota esplicativa di Alessandro Bruni sul trumpismo dilagante. Questo blog non ha come fine l’esposizione di situazioni politiche e partitiche né per quanto riguarda l’Italia, né per altre nazioni. Ciò che ci interessa sono le ricadute sociali che la politica nazionale e internazionale determinano nella qualità della vita di persone comuni quali noi siamo. Pertanto, il prevalente interesse per la nomina di Trump alla presidenza degli Stati Uniti ha per noi riflesso per quanto avrà sulle persone svantaggiate per conflitti armati, povertà, alimentazione, sanità. A fornire informazioni, dalla geopolitica allo scontro tra poteri, al determinare vinti e vincitori su qualsiasi scena, non mancheranno i media cartacei e digitali scrivendo di cronaca politica e partitica, di schieramenti, di conflittualità sovraniste, di ambigui vassallaggi, di indicazioni di vincitori e vinti. Noi continueremo a guardare a coloro che sono costantemente vinti, al mondo degli emarginati, dei perdenti, degli sfiduciati. Saremo poca cosa, ma ci interessano più le riflessioni post eventi politici, le riflessioni non urlate, ma confrontate con colloqui sereni al tavolo di cucina tra la nostra famiglia e i nostri amici fraterni di ogni posizione politica essi siano. I post che pubblicheremo sul trumpismo dilagante avranno questo fine e il nostro schieramento sarà sui contenuti sociali che il trumpismo determinerà con la ferma proposizione di non essere sudditi di nessuno. Non ci preoccupa essere dei perdenti liberi.