Sandro spinsanti2Quando un tema etico di rilevanza maggiore si affaccia sul palcoscenico della vita pubblica assistiamo per lo più a una polarizzazione di posizioni. Così nelle reazioni che hanno fatto seguito alla legge regionale toscana che di recente ha cercato di rendere operativo il ricorso al suicidio medicalmente assistito, nel rispetto di quanto previsto dall’ordinanza della Corte costituzionale (n. 207 del 2028) che, a certe condizioni rigidamente delineate, esclude il reato da parte di chi porta il proprio aiuto. L’accoglienza della regolamentazione regionale ha registrato sia toni enfatici e trionfalistici (salutandola come “un forte messaggio di civiltà”), sia apocalittici (“una sconfitta per tutti”, un ulteriore passo verso la totale svalutazione della vita umana). Sullo sfondo di queste reazioni contrapposte intravediamo l’identica aspirazione a rivendicare la superiorità di una determinata posizione morale, focalizzata in un caso sulla priorità da assegnare all’autodeterminazione della persona e sulla difesa della vita nell’altro. Esistono modi diversi di affrontare questo tema scottante?

  • Anzitutto: le parole corrette

Un’indicazione autorevole è proposta dal Dialogo sul suicidio medicalmente assistito (Cnr Edizioni 2024). La pubblicazione raccoglie le riflessioni prodotte dalla Consulta scientifica del Cortile dei Gentili, la struttura vaticana rivolta a favorire l’incontro e il dialogo tra credenti e non credenti. Le diverse posizioni confluiscono nella convinzione, espressa dal documento, che ci sia la possibilità di trovare un equilibrio tra i due principi fondamentali della Costituzione: il valore della vita e il rispetto dell’autonomia della persona. La postura fondamentale auspicata non è quella della contrapposizione rivolta a squalificare la posizione non condivisa, ma piuttosto la sua valorizzazione tramite il dialogo e il confronto con la concreta realtà clinica, sotto il segno della pietas.

Avventurarsi in questo territorio non è un’irenica passeggiata. Il primo passo è costituito dal dare lo stesso significato alle parole. Alcune delle parole che circolano in questo ambito sono fortemente equivoche. A cominciare dal termine eutanasia: le reazioni emotive che suscita sono chiamate a confrontarsi con realtà – cliniche e umane – fortemente differenziate indicate con la stessa parola. “Disambigua”, ci prescrive talvolta Wikipedia quando cerchiamo una parola che ha diversi significati. Nell’ambito della fine della vita le insidie linguistiche possono affossare ogni tentativo di dialogo: la condizione previa è dare lo stesso significato alle parole. Per questo obiettivo un sussidio prezioso è costituito dal Piccolo lessico del fine-vita (Libreria Editrice Vaticana, 2024), a cura della Pontificia Accademia per la vita.

 Il lemma dedicato al “Suicidio assistito” differenzia chiaramente l’eutanasia da questa pratica: se infatti l’eutanasia “richiede l’intervento di un terzo come causa necessaria e sufficiente per porre fine alla vita, nel suicidio assistito tale intervento è necessario, ma come aiuto”; in questo caso è il malato stesso a togliersi la vita e l’eventuale aiuto medico consiste nel prescrivere e porgere il prodotto letale. Non sono sofismi: prima di dichiararsi pro o contro l’eutanasia o il suicidio assistito, è necessario esplicitare di che cosa stiamo parlando. Senza dimenticare che le parole, oltre a poter denotare cose diverse, hanno anche un significato connotativo. Ciò vuol dire che sono circondate da un’aura che può caratterizzare la stessa realtà in modo emotivamente molto differenziato, a seconda della parola che utilizziamo. Da questo punto di vista è bene essere consapevoli che la parola suicidio ha una connotazione negativa: evoca un atteggiamento di disprezzo della vita, quando non di vigliaccheria morale. Se lo chiamiamo aiuto medico a morire denotiamo lo stesso comportamento, ma con una connotazione diversa. È sicuramente un termine da preferire, se non vogliamo essere pregiudizialmente intrappolati in una valutazione morale negativa.

  • Mettersi in posizione di ascolto

Come accennato, la pratica di cui stiamo parlando è stata circoscritta dalla Consulta in un ambito rigidamente delimitato dalla presenza di quattro condizioni: una patologia irreversibile che sta conducendo alla morte, la presenza di dolori fisici o psichici intollerabili, la dipendenza da trattamenti di sostegno vitale dai quali il malato vuol essere liberato e la capacità di assumere consapevolmente e liberamente la decisione di porre fine alla vita. Ognuna di queste condizioni presenta aspetti problematici, che richiedono un confronto e una discussione approfondita. Ma è soprattutto la condizione psicologica e morale della persona che richiede questo tipo di intervento medico che suscita turbamento. Abbiamo un malato che proclama: ”Voglio morire: aiutatemi”. Che cosa contiene veramente quella domanda di morte? Chi l’ascolta, chi l’interpreta? È di fronte a questa sfida che prende rilievo la richiesta procedurale dell’intervento di un comitato etico. La Consulta prevede esplicitamente che la procedura possa essere avviata “previo parere del comitato etico territorialmente competente”. Questo passaggio potrebbe essere svalutato come una pastoia burocratica, oppure considerato come una grande opportunità.

La presenza di comitati a valenza etica nel contesto clinico è una novità importante. Non annulla il ruolo della coscienza, con cui ogni professionista della cura è chiamato a rapportarsi. La nascita di questi organismi presuppone la consapevolezza della complessità dei problemi etici che nascono al capezzale del malato con la medicina dei nostri giorni. Il comitato non pretende di sostituirsi al professionista stesso, decidendo al posto suo che cosa sia etico e che cosa non lo sia; piuttosto lo supporta con una pluralità di punti di vista e di competenze. La presenza di esperti di Medical Humanities, ovvero quell’altra metà della medicina che è importante in tutto il percorso di cura, ma nel fine vita diventa determinante – oltre a psicologi, sociologi, giuristi e ovviamente bioeticisti, che rappresentano l’ambito umanistico della pratica della cura, senza dimenticare esperti della dimensione spirituale – è fortemente auspicabile.

  • Quale ruolo per il comitato etico?

 Il comitato per l’etica clinica, se correttamente inteso, rende ragione dell’etimologia della parola che lo caratterizza, derivata dal latino “comitari”, ovvero accompagnare. Non dunque un organismo impersonale, che dall’alto nega o concede autorizzazioni, bensì delle persone che mettono insieme le loro competenze per confrontarsi con una richiesta così inquietante come quella di essere aiutati a morire. E iniziano col mettersi di fronte alla persona stessa: l’incontrano, l’ascoltano e cercano di sintonizzarsi sulla sua stessa lunghezza d’onda. In pratica, il confronto è finalizzato a un’opera di discernimento della domanda di morire. Ascolto e accompagnamento sono le due parole chiave di un percorso condivisibile anche da chi ha opinioni diverse sull’aiuto da prestare a chi chiede di tagliare il filo della vita. Molto pertinenti a questo proposito sono le parole con cui Giuliano Amato introduce il Dialogo sul suicidio medicalmente assistito: “Si profila la necessità di una relazione che investa da un lato il paziente e i suoi familiari, dall’altro l‘insieme delle competenze e delle responsabilità che un buon sistema sanitario pubblico deve mettere in campo: medici con diverse specializzazioni, bioeticisti, fisioterapisti, infermieri, tutti partecipi di un’assistenza che solo nella continuità può corrispondere al fine di solidarietà, di cui ha da essere espressione (…) Ci accorgiamo che, non a caso, è la pietas a rimanere al centro: per capire l’altro; per capirne e soffrirne con lui le ragioni, anche quando non sono le nostre; e per agire di conseguenza”.

Se il comitato per l’etica clinica è lo strumento ideale per questa interlocuzione con il malato che chiede di porre fine ai trattamenti di sostegno vitale e alla vita stessa, il problema è costituito dalla reale disponibilità di queste strutture. Pochissime regioni lo hanno previsto, investendo anche nella formazione necessaria per adottare un rapporto che è controintuitivo rispetto a quelli autoritari e paternalistici che prevalgono nella pratica clinica. Né questi comitati possono essere sostituiti da quelli che si occupano di supervisionare la ricerca in medicina: le competenze richieste non sono affatto sovrapponibili. In questo caso è molto probabile che la funzione del comitato etico degradi verso un ruolo puramente burocratico.

Inclinano verso una valutazione negativa del ruolo che possono giocare i comitati etici le notizie di cronaca relative al loro funzionamento dopo le indicazioni della Consulta. In casi molto enfatizzati si è polemizzato sui ritardi del comitato interpellato nel dare il proprio responso a chi sollecitava il percorso verso il suicidio assistito. Si è attribuito al comitato il giudizio sull’appropriatezza della richiesta, sul farmaco da somministrare e sulla compatibilità con un “contesto operativo decoroso”. Traspare un ruolo attribuito al comitato di decidere ciò che è etico e ciò che non lo è. Ciò evoca piuttosto un organismo che abbia il monopolio dell’etica e la gestisca in maniera autoritaria. Siamo lontani dalla funzione ideale di un comitato che operi nel senso di un discernimento della richiesta e di un aiuto a metterla a fuoco.

  • Una legge sul fine vita all’orizzonte

Per quanto controverso e difficile sia il percorso di una legge nazionale che regoli il fine vita, e in particolare il suicidio medicalmente assistito, è inevitabile che, prima o poi, vi si pervenga. L’ha formalmente richiesto  la Corte costituzionale con l’ordinanza n. 207 del 2018 e con due successive sentenze. Anche la maggioranza della popolazione dai sondaggi risulta favorevole. Su questo scenario ipotetico risalta una questione: quale posizione potranno/dovranno assumere medici, infermieri e altri professionisti sanitari? È scontato che la legge dovrà rispettare la divergenza delle valutazioni etiche personali. L’abbiamo peraltro già sperimentato nel contesto della legge sull’interruzione volontaria della gravidanza: l’obiezione di coscienza è stata formalmente prevista, senza che tutti i professionisti fossero obbligati a seguire una stessa prassi, qualora non la condividessero. Saranno poi i codici deontologici delle rispettive professioni a delimitare gli ambiti tra ciò che è prescritto dalla legge e i comportamenti ritenuti appropriati per coloro che praticano la cura.

Dovrà essere rispettata la possibilità di una varietà di posizioni, non riducibili solo all’alternativa di favorevoli o contrari a rendere possibile la fine della vita con l’aiuto della medicina. Non si tratta tanto di filosofeggiare sulla vita e sulla morte, sulla disponibilità o indisponibilità della vita umana: il focus della questione è costituito dalla presa di coscienza che il morire nel nostro contesto culturale è medicalizzato. Ciò implica che i tempi e i modi del fine vita – al di fuori di una morte che avvenga in contesti catastrofici e improvvisi – dipendono da quanto si fa o si omette di fare ricorrendo alle risorse sanitarie. A ciò va aggiunto che la medicina sviluppa più che mai una doppia faccia: può costituire una benedizione, ma può diventare anche un incubo. Soprattutto nel contesto circoscritto dalla delibera con cui la Consulta ha predisposto che, in certe condizioni, aiutare una persona al suicidio non costituisce reato: parliamo di una malattia inguaribile che progredisce senza poter essere arrestata e che provoca una sofferenza ritenuta soggettivamente insostenibile. Quando sopravvivere grazie ai sussidi di sostegno vitale che la medicina può garantire non è più considerato un beneficio dalla persona malata, la medicina cambia segno, tramutandosi in una maledizione dalla quale i malati che chiedono di morire intendono evadere.

  • Un ventaglio di posture professionali

Se consideriamo lo scenario generale dei diversi atteggiamenti che assumono i professionisti sanitari nei confronti del fine vita ci accorgiamo che le posizioni sono molto più differenziate della semplice polarizzazione tra favorevoli e contrari al suicidio attuato con l’aiuto della medicina stessa. Quella che possiamo chiamare “postura professionale” nei confronti del fine vita non dipende solo dalle decisioni che si valutano buone o cattive con i criteri dell’etica. Sono piuttosto un mix in cui riconosciamo le spinte motivazionali che animano la professione del curante. Possono andare dall’orientamento idealistico-filantropico a motivazioni di più basso profilo. Entusiasmi, delusioni, eventi rimotivanti: il percorso della spinta motivazionale è decisamente a ostacoli e non si può escludere che l’impulso iniziale a un certo punto si spenga (burn out). C’è chi si sente coinvolto nell’accompagnamento del malato fino all’estrema soglia della vita e chi invece desiste molto prima. Prima che lo scenario delle posizioni morali divida i professionisti tra favorevoli e contrari a fornire l’aiuto medico a terminare la vita, dobbiamo riconoscere una grande varietà di atteggiamenti dei curanti a farsi carico del percorso di fine vita, a seconda della spinta motivazionale che li guida nell’esercizio della professione.

Nella postura del professionista riconosciamo inoltre differenze notevoli rispetto al sapere sul quale si fa affidamento per erogare le cure. Può essere esclusivamente quello delle scienze hard o il sapere che proviene dalle Medical Humanities. Se prevale l’opzione scientista rispetto a quella umanista, l’interesse sarà polarizzato sulle prove di efficacia dei trattamenti, piuttosto che su tutto ciò che l’ascolto del vissuto del malato può far emergere, compresa la richiesta di porre fine a una sopravvivenza quando questa sia diventata un incubo.

Non si tratta di formulare dei giudizi moralistici sull’una o l’altra postura dei professionisti, ma di capire come le diverse posture si riverberino sul come e fin dove accompagnare il malato nel percorso di fine vita. La differenziazione comincia ben prima del sì o no all’aiuto al suicidio. Se un professionista ha fatto propria una postura vitalista, sarà incline a considerare il suo compito di cura come un impegno a prolungare la vita della persona malata, in qualsiasi modo e a qualsiasi prezzo. La postura scientista invece intende la cura come la riparazione di un organo malfunzionante: le dimensioni psicologiche e spirituali del malato gli sono del tutto estranee. Il professionista che l’adotta si atterrà ai comportamenti validati e standardizzati dalla scienza (magari attenendosi scrupolosamente alle linee guida come mossa preventiva di autodifesa, in previsione di possibili contestazioni giuridiche o medico-legali). E quando sarà arrivato al termine delle sue possibilità – “Non c’è più niente da fare” – passerà il testimone ad altri, invocando l’intervento del palliativista. Un atteggiamento che in ambito pastorale richiama il triste: “Non c’è più niente da fare: chiamate il prete”; analogo è il presupposto implicito che la cura vada intesa entro limiti determinati, oltre i quali il compito passa a un altro professionista (i pastori di anime in passato, i palliativisti ai nostri giorni).

Il fine vita in ambito medico comincia prima dell’inarrestabile declino che si conclude con la morte. È un processo che comprende cure, non di rado reiterate, effetti collaterali, condizioni più o meno desiderate di sopravvivenza; e difficili decisioni: di perseverare, di insistere o di optare per una desistenza terapeutica. E valutazioni conflittuali: puntare sulla quantità o sulla qualità della vita? Tutto ciò richiede un accompagnamento da parte di chi esercita la cura. Inizia con la disponibilità all’ascolto e prosegue con la decodificazione della domanda. Perché, ad esempio, la richiesta di morire non sempre vuol dire una volontà di morte, ma nasconde una domanda di aiuto; altre volte, invece, esprime una vera e propria sazietà di vita.

  • Conclusione

Lo scenario delle cure palliative, considerate come un elemento integrale della cura e non come un elemento residuale che interviene quando la cura cessa, ci permette di vedere sotto un’altra luce la richiesta di un aiuto medico a morire. Anche questa eventualità può essere – paradossalmente – parte della cura. A condizione che anche l’accompagnamento nella parte finale della vita sia agganciato alla cura stessa, e non inteso come un’alternativa alla cura. Sarà poi diversa la disponibilità dei professionisti a prendere su di sé questo compito, secondo le diverse posture. Il compito è quindi ben più ampio che formulare un consenso o un dissenso all’aiuto medico a morire: si tratta di assicurare la giusta collocazione della palliazione nell’arco della cura, riconducendola entro la categoria dell’accompagnamento.

L’accompagnamento è oneroso. Non pochi professionisti non lo includono nel concetto di cura. Ritengono che curare significhi fare tutto il possibile per prolungare la vita, senza alcun riferimento alla volontà del malato; si limitano a fornire prestazioni nell’ambito della propria specialità clinica (qualcuno chiama questi medici dei “protocollisti”, perché si limitano a seguire linee guida e protocolli). Alcuni si fermeranno molto prima di entrare nell’ambito delle cure palliative che preferiscono considerare una specialità clinica tra le altre. Anche i palliativisti stessi potranno differenziarsi: qualcuno si arresterà alla possibilità di una sedazione profonda; altri potranno includere anche un aiuto a un positivo distacco dalla vita, quando questa sia diventata intollerabile per il malato. Ma l’orizzonte deve essere sempre quello della cura, intesa come un accompagnamento lungo tutto l’arco della vita. Ascolto e accompagnamento sono parti essenziali della buona medicina che auspichiamo, da tutti i professionisti della cura. La pietas non si può imporre per legge; ma non sottovalutiamo l’efficacia di un’appropriata “moral suasion” per cambiare i comportamenti dei professionisti.