di Antonio Pellegrino. Pubblicato in Linkiesta del 18 aprile 2025.
Il 9 marzo scorso, un ricercatore francese, in visita negli Stati Uniti per conto del Centre national de la recherche scientifique (Cnrs), è stato sottoposto a un controllo casuale all’aeroporto. Lì, dopo una perquisizione approfondita del suo cellulare e del suo computer, gli è stato negato l’ingresso nel Paese ed è stato immediatamente rimpatriato in Francia. Dieci giorni dopo, il ministro francese dell’Istruzione superiore, Philippe Baptiste, ha riportato la vicenda spiegando che «questa misura è stata apparentemente presa dalle autorità americane perché il telefono del ricercatore conteneva conversazioni con colleghi e amici in cui esprimeva un’opinione personale sulla politica di ricerca dell’amministrazione Trump».
Il suo omologo agli Esteri, Jean-Noël Barrot, ha affermato di «deplorare questa situazione» ribadendo la propria «determinazione a promuovere la libertà di espressione». Nessun commento ufficiale da parte delle autorità statunitensi. Nonostante le dichiarazioni di alcuni elementi delle forze dell’ordine – i quali hanno parlato di un vago «cospirazionismo» contro la Casa Bianca – chi ha toccato la vicenda ha confermato che i motivi dietro questa espulsione sono riconducibili alle critiche, fatte dal ricercatore, contro la presidenza americana e nello specifico contro i tagli al budget riservato alla comunità scientifica (oltreché alla soppressione di alcune ricerche finanziate con i fondi pubblici).
La cosa si riallaccia alle recenti azioni intimidatorie della Casa Bianca contro diversi membri della comunità universitaria – il rimpatrio forzato della dottoressa Rasha Alawieh o l’arresto dello studente della Columbia University Mahmoud Khalil – giustificate come provvedimenti anti-terroristici, ma lasciamo da parte, per ora, l’attacco al mondo accademico (sempre più simile a una vendetta camorristica contro i nemici del 2016) e torniamo all’episodio dello scorso marzo, alle sue specificità.
Sono due i punti fondamentali che rendono questa vicenda estremamente grave. Innanzitutto i metodi: gli agenti hanno effettuato un controllo delle chat private dello scienziato, cercando specificatamente parti di discussioni confidenziali, intime, che potessero rappresentare una qualche forma di pericolo.
Un’argomentazione fatta dai (pochi) critici dell’episodio è che questo tipo di controllo non è una novità: si legge infatti sulla pagina dell’U.S. Customs and Border Protection che «tutti i viaggiatori che attraversano il confine degli Stati Uniti possono essere soggetti a ispezione» e che «in rari casi, gli agenti possono controllare i telefoni, i computer, le fotocamere e altri dispositivi elettronici durante l’ispezione». Nella stessa pagina viene ribadito, però, che il provvedimento viene applicato specificatamente per individuare casi di «terrorismo, pedopornografia, spaccio» e reati simili, e che nel 2024 meno dello 0,01 per cento dei viaggiatori è stato sottoposto a un controllo di questo tipo.
La sua storia si è conclusa con il rientro in patria, ma le conseguenze di questo episodio iniziano a impattare la vita quotidiana negli Stati Uniti. Tra i residenti del Paese, specialmente tra gli immigrati regolari, si è diffusa l’idea che i loro telefoni possono essere soggetti a un controllo arbitrario, che un’opinione anti-Trump possa portare alla cancellazione del visto, al suo mancato rinnovo, al rimpatrio.
sintesi di Alessandro Bruni
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