Nel Piano 2025–2027, noto anche come “Piano Roccella” (dal nome della Ministra per le pari opportunità e la famiglia, Eugenia Roccella), colpisce l’assenza di parole presenti nella versione precedente: non c'è traccia di famiglie adottive o affidatarie, né di concetti come violenza, stereotipi e vulnerabilità. Le 14 azioni previste si concentrano invece su obiettivi esplicitamente dichiarati: sostenere la natalità e valorizzare la famiglia come “nucleo fondamentale della società”.
Concretamente, questo si sviluppa in azioni che, ad oggi, vengono definite in maniera vaga, e in questa vaghezza possono nascondersi delle insidie.
Nel Piano viene posta grande attenzione alla definizione di figure esperte, mappatura, analisi dei bisogni, e alla creazione di modelli di riferimento chiamati a guidare un cambiamento di senso.
A proposito di competenze, non è dato sapere quali siano le figure che “rafforzeranno le capacità genitoriali” nei primi mille giorni, probabilmente un rimando alla figura dell’assistente materna – cavallo di battaglia della ministra Roccella, che anche in passato aveva fatto sobbalzare le figure professionali già riconosciute.
C’è poi l’introduzione della figura del family manager, che dovrebbe coordinare le risorse territoriali ed è il centro di un’azione specifica che si basa, di nuovo, sulla definizione di competenze, incerte e poco chiare nella loro direzione. Queste figure avrebbero rilevanza nell’ottica di rafforzare la gestione territoriale delle tematiche legate alla famiglia, che prosegue enfatizzando il ruolo dei Centri per la famiglia, senza però prevedere un potenziamento delle risorse per ampliare la diffusione di questi centri, nonostante la loro distribuzione diseguale sul territorio.
Qui subentra anche la questione della mappatura: quando si vanno a esplorare i bisogni delle famiglie e il supporto che c’è a livello territoriale va benissimo pensare a fare delle mappature, ma bisogna essere consapevoli che le mappature dipendono anche dagli investimenti e che da questi sono orientate.
Un tessuto capillare di associazioni di matrice cattolica, ad esempio, potrebbe far emergere una presenza che offre soluzioni e servizi con delle caratteristiche ben precise.
Il riferimento ai Centri per le famiglie fa pensare a una mancanza di visione territoriale complessiva: si tratta infatti di centri nati nel 2012, prevalentemente localizzati nel Nord Italia e in particolare in Lombardia, dove già alcune sperimentazioni rendevano palese la missione di sostituzione dei consultori, più capillari nel territorio e meno permeabili, almeno fino a questo governo, a visioni estremiste.
Una mappatura così limitata potrebbe far scoprire, e di questo nessuno si stupirebbe, che mentre le famiglie cambiano, il supporto offerto non coglie questi cambiamenti ed è invece decentrato rispetto ai bisogni concreti delle persone che le compongono.
Quando l’obiettivo è identificare i bisogni attraverso il rafforzamento della conoscenza, lo si fa in un’ottica che potrebbe essere potenzialmente interessante, se già non si scorgessero i limiti di un ancoraggio culturale rispetto a ciò che si vuole trovare, invece che a un’esplorazione aperta. Un esempio concreto è l’azione del Piano che si pone come obiettivo lo studio della generazione Z – le persone tra i 18 e i 25 anni –, per le quali si vogliono capire le motivazioni in merito ai percorsi di vita genitoriale e di coppia. E se queste persone non avessero come ideale di riferimento il sistema coppia, come si farebbe a farlo emergere? Spesso si trova ciò che si va cercando.
Anche l’analisi di valutazione delle politiche è diversa a seconda di quali obiettivi ci si pone: perché analizzare l’Assegno unico universale in merito al suo effetto sulla natalità, quando non era l’obiettivo di partenza di questa politica? E comunque, anche se lo fosse: perché dobbiamo arrenderci a un rafforzamento del senso che va nella direzione di sostenere questa visione per cui la centralità dell’idea di famiglia sia legata all’aumento della fecondità e non alla libera scelta di diventare genitori o meno?
Eppure, studi culturalmente affini sollevano dubbi sulla direzione scelta dal piano: servizi come asili e congedi hanno effetti più duraturi dei trasferimenti monetari, che al massimo anticipano decisioni già prese. In generale, il legame tra politiche per la famiglia e incremento della fecondità risulta comunque scarso e la loro efficacia andrebbe misurata rispetto alla capacità di sostenere concretamente le famiglie, promuovendo l’equilibrio tra vita e lavoro, la parità nei ruoli familiari e sociali, piuttosto che limitarsi a valutazioni basate sui tassi di fecondità. Tutti temi sui cui il Piano nazionale sorvola.
La creazione di nuovi modelli di riferimento non sorprende, visto l’orientamento marcato alla ridefinizione degli obiettivi più di indirizzo, che di fatto. Il piano, ad esempio, dichiara di voler superare un approccio assistenzialista, puntando su famiglie “centrali per la comunità”. In un paese in cui la centralità familiare e il cambiamento demografico significano essenzialmente ancora più peso del ruolo di cura sulle spalle delle donne, e in cui alcune famiglie non hanno risorse per contribuire alla comunità, resta un mistero come si possa pensare a un welfare che metta ancora più responsabilità sulle famiglie stesse.
Per non parlare, poi, del riferimento al benessere mai declinato in chiave individuale: già questa scelta rivela un modello culturale preciso, che il piano non sembra voler mettere in discussione.
In questo caso, però, le insidie sono al contrario: configurare la famiglia come centrale può voler dire trovarsi di fronte a una realtà ben diversa da quella immaginata. Un esempio fra tanti: a fronte di una famiglia implicitamente designata come unità eteroaffettiva e tradizionale (spesso nel piano si far riferimento a madri e padri), ignorando la pluralità delle configurazioni familiari, proprio il focus sul territorio porterà a scontrarsi con la realtà. E se alcune (come quelle omoaffettive) non sono riconosciute nemmeno sul piano giuridico, altre – come i nuclei monogenitoriali – sono già oggi diffuse e legittimate. Secondo Istat, nel 2042 saranno tre milioni. Ignorarle non farà di certo in modo che cessino di esistere.
In definitiva, il piano sembra costruito più per consolidare un orientamento culturale che per rispondere in modo aperto e concreto alla pluralità dei bisogni contemporanei. È chiaro che si dimostra attinente a questa fase politica. Una visione alternativa che parta dall’ascolto reale delle soggettività e dei territori, riconoscendo che le famiglie sono molteplici, che i bisogni cambiano e che il benessere individuale conta tanto quanto quello familiare non era pensabile oggi.
Così come è difficile pensare a orientamenti capaci di accompagnare le scelte di vita senza indirizzarle, di garantire condizioni materiali, sociali e culturali che rendano possibile – e non prescritta – la genitorialità. Più che al rafforzamento ideologico della famiglia, sarebbe tempo di puntare a un welfare che redistribuisca risorse, riconosca le differenze e valorizzi l’autonomia. Dovremo per questo aspettare sicuramente oltre il 2027.