di Giuseppe Ferrara. Pubblicato in Periscopio del 16 aprile 2025.
Sembrerebbe che i 52.000 abitanti della Groenlandia si trovino a fronteggiare due problemi: il primo è dovuto al cambiamento climatico; il secondo è dovuto a chi ha prodotto…. il primo problema o, anzi meglio, lo nega: non lo riconosce e, meno che meno, se ne sente responsabile.
Il primo si manifesta come un semplice e misurabile scioglimento dei ghiacci con il conseguente innalzamento delle acque dell’oceano.
Il secondo problema si va sempre più manifestando come una esplicita minaccia di invasione dell’isola da parte degli Stati Uniti d’America che per bocca del Presidente Trump (e del suo vice Vance) hanno bellamente mostrato di infischiarsene non solo delle elementari norme internazionali di convivenza civile ma anche e soprattutto dei luoghi di sepoltura degli antenati del popolo groenlandese.
Ricordiamo che in Cent’anni di solitudine di Gabriel G. Marques è solo con l’edificazione della tomba di Melquiades, lo zingaro, che José Arcadio Buendia potrà dichiarare fondato il suo amato, mitico paese.
Questo sconsiderato attacco americano (prima economico, poi logico e infine linguistico) prelude a una sola cosa: una inevitabile catastrofe antropologica rappresentata dallo sradicamento di migliaia di persone dal loro passato. O più probabilmente dal loro futuro.
Il nostro Giambattista Vico aveva creato a questo proposito una sorta di etimologia patafisica della parola umano facendola derivare dal latino humando in riferimento ai riti della sepoltura (inumazione).
Evidentemente gli Stati Uniti d’ America sono un Paese troppo “giovane” dal punto di vista storico e antropologico per avvertire la rilevanza della questione.
Recentemente però è uscito, in traduzione italiana, un libro dell’inglese Tim Ingold, Professore emerito di Antropologia Sociale, che potrebbe aiutare ( anche gli americani) a comprendere meglio queste cose.
Il titolo del libro è Il futuro alle spalle. Ripensare le generazioni (Meltemi, 2024)
Nel presente saggio Tim Ingold sostiene alcune tesi che a prima vista potrebbero risultare provocatorie.
Ad esempio sostiene che per poter affrontare i grandi problemi del nostro tempo (guerre, riscaldamento globale, perdita della biodiversità, derive autocratiche delle democrazie, calo di fiducia nelle istituzioni comunitarie e transnazionali) bisognerebbe abbandonare l’idea della innovazione a tutti i costi e la stessa pratica fuorviante della innovazione per il progresso.
Alla base di questa revisione c’è poi quella ancora più importante e fondante che è la concezione stessa di futuro inserito non più in un discorso cronologico in avanti ma come una capacità di cogliere segni provenienti dal passato.
Che cosa significa allora che il nostro futuro è alle spalle? Prima di tutto è ovvio che tutte le culture si rifanno a una tradizione e dunque a trasmettere e tramandare “cose” più o meno visibili, documentate o solo raccontate.
Si pensi ad un tempo greco arrivato fino a noi quasi del tutto intatto (o se preferite, semidistrutto): oltre alle colonne ancora erette e ad alcune semi interrate o riverse a terra, è chiaro che si avverte anche la quantità di cose invisibili e scomparse che in parte potremmo recuperare grazie alla nostra immaginazione di uomini della stessa specie delle generazioni che hanno preceduto la nostra.
Per certi versi però a questa ovvietà dice Ingold si affianca una certa volontà della nostra “modernità” di “eliminare” sistematicamente il passato e le sue tracce ovvero, che è lo stesso, immagazzinare tutto questo in una memoria esterna praticamente illimitata: i sistemi di intelligenza artificiale a questo sono adibiti, alla possibilità di recuperare qualunque tipo di “ricordo” in tempo reale cioè, parafrasando, tutte le colonne che sono ancora belle erette e quelle riverse a terra ma ancora visibili.
E tutto il resto? Quello che non si vede e che non “avvertiamo” più?
Proprio questa “apparente e immediata” disponibilità di memorie è l’altra faccia della eliminazione di memoria ovvero di quella “necessità” specifica di trasmettere e tramandare il sapere da una generazione ad un’altra.
Il senso comune di questa modernità , dice Ingold, è quello di pensare le generazioni come entità separate che succedendosi l’una con l’altra formano strati geologici che si sovrappongono tra loro ma non si intrecciano: così abbiamo i Boomer , poi Gen X e quindi i Millenislas e Gen Z.
In tal modo a dominare in un dato periodo storico è una sola di esse quella che Ingold chiama Generazione Ora pronta a cancellare quello che ha fatto la generazione precedente e consapevole di “dover” lasciare il passo a quella successiva, senza alcuna apparente condivisione tra loro.
È il modo di ragionare , osserva Ingold , dell’archeologia che opera per stratificazioni nel tempo, ma anche della biologia evoluzionista con i suoi pacchetti preordinati di caratteri genetici da trasferire alla generazione che seguirà. Lo stesso accade nell’antropologia della parentela o se volete negli alberi genealogici famigliari che uniscono le relazioni con lineette e caselle ( organigrammi famigliari) senza nulla dire della qualità delle relazioni.
Eppure continua Ingold lo studio etnologico delle diverse culture umane ci consegna una immagine delle relazioni intergenerazionali assai diversa: non strati impilati ma fili sottilissimi che continuano ad intrecciarsi per formare una corda sempre più resistente:
“…l’elemento cruciale della generazione è che essa appartiene allo stesso movimento della vita che genera. È un proseguire, non uno scambiare come tale”.
L’atto generativo, per così dire, si protrae nel tempo e non esiste alcuna discontinuità: i giovani non sono entità che prima o poi sostituiranno i padri, così come gli anziani non sono soggetti che hanno abbandonato la scena.
È solo ritornando a un mondo comune intrecciato di generazioni che si potranno affrontare e superare i problemi che affliggono la nostra modernità.
La sfida dice Ingold è solo una: perdurare, lasciare delle scie, costruire le proprie tracce.
Ritornando ai due “problemi delle Groenlandia”, dunque la sfida non è procurarsi terre rare per continuare a progredire, ma perdurare con i groenlandesi difendendo l’isola dal riscaldamento globale. La sfida non è non invaderla e sfruttarla, ma salvaguardare la… “tomba di Melquiades”. La sfida non è disegnare un’altra lineetta per collegare due generazioni o aggiungere un’altra stella alla bandiera USA, ma riprendere il filo per irrobustire la corda della Vita comune, tra generazioni, su questo pianeta.