di Stefano Allievi. Sociologo del movimento culturale. Pubblicato nel blog dell’autore il 30 marzo 2025.
Il governo è intervenuto regolamentando, in senso restrittivo, l’acquisizione della cittadinanza da parte dei discendenti di emigranti italiani. Era un provvedimento atteso da tempo. La normativa precedente consentiva di ottenere la cittadinanza, senza nemmeno essere mai stati in Italia, a chiunque potesse vantare un antenato emigrato dopo il 1861, anno di proclamazione dell’unità d’Italia: con il risultato di intasare ambasciate e consolati, e ancor più i comuni d’origine di questi lontani ascendenti, di complesse pratiche burocratiche, il cui scopo era essenzialmente ottenere un passaporto che consentisse di entrare negli Stati Uniti o in altri paesi senza visto, e in qualche caso di farsi curare in Italia a spese del sistema sanitario nazionale.
Una follia logica, che alcuni politici contrari al provvedimento si ostinano a difendere in nome di una inesistente base biologica, straparlando di ‘sangue italiano’ a dispetto di incroci che durano da oltre un secolo e mezzo (e come se il sangue contenesse la cultura, la storia, la lingua di un paese, le cui frontiere peraltro sono nel frattempo cambiate più volte). Intorno a queste richieste strumentali di cittadinanza si era inoltre creato un business di avvocati e faccendieri, che aveva portato al collasso le anagrafi dei comuni in passato a maggiore tasso di emigrazione, spesso già piccoli e poveri di risorse (come sanno bene alcuni comuni veneti, la regione con più emigranti d’Italia).
Tutto questo oggi non sarà più ammissibile: la possibilità di richiedere la cittadinanza è limitata a due generazioni, figli e nipoti di emigranti. E subordinata a una presenza di almeno due anni sul territorio italiano: quindi, intuibilmente, a un progetto di stabilizzazione in Italia (ricordiamo che per i cittadini comunitari, la permanenza richiesta è di cinque anni, e per i non comunitari di dieci: resta quindi, correttamente, un trattamento di maggior favore). Il provvedimento è tanto più significativo perché voluto da un governo guidato da una presidente proveniente dallo stesso partito di chi aveva invece voluto la legge precedente (peraltro approvata con sostegno bipartisan), l’onorevole Mirko Tremaglia, che fu anche ministro degli italiani nel mondo: un galantuomo, rispettato esponente della destra, che peraltro ha sempre ritenuto che lo stesso diritto alla cittadinanza dovessero avere gli immigrati in Italia (in questo, rimasto inascoltato).
Non va invece nel senso della normalizzazione (al contrario) la decisione di utilizzare i centri in Albania anche come CPR, Centri per il rimpatrio. Per giustificare un enorme investimento sbagliato, a rischio di danno erariale, e per non voler ammettere di avere fatto un errore, si esternalizza una funzione che dovrebbe stare in Italia (molte regioni hanno già un CPR: tra queste, manca il Veneto), peraltro moltiplicando i costi, e dando vita a un rischioso precedente – in termini di principio sarebbe come esternalizzare le carceri.
I migranti in attesa di espulsione verranno portati in Albania, potranno stare nel centro fino a 18 mesi (senza alcun capo di imputazione e di fatto senza diritti), ma per essere rimpatriati dovranno essere riportati in Italia, così come quelli che non si potranno rimpatriare, a meno di immaginare di lasciarli liberi in Albania (governo locale permettendo, ed è improbabile): il che significherebbe che potrebbero ritentare l’ingresso via mare dall’Albania o via terra lungo il corridoio balcanico. Un andirivieni inutile che, questo sì, rischia di assomigliare a dei “taxi del mare”, in forma di navi militari, e pagati dal contribuente.
Un passo avanti e uno indietro, insomma, nella gestione dei flussi migratori.