di Stefano Allievi. Sociologo del movimento culturale. Pubblicato nel blog dell'autore il 15 aprile 2025.

Stefano allieviLa storia della democrazia è la storia di una costante e progressiva limitazione dei poteri di chi governa: quello del monarca assoluto grazie ai parlamenti, la divisione tra potere legislativo esecutivo e giudiziario, fino ai limiti temporali nell’esercizio dei mandati. Un processo di continua ridefinizione di un equilibrio precario, imperfetto per definizione, soggetto a continue revisioni e a conflitti interni, tuttavia necessari per ripensare e anche ribadire il senso del processo stesso, la coerenza tra i suoi fini e i mezzi per raggiungerli.

Il limite dei mandati è uno degli oggetti del contendere. Chi esercita il potere vuole continuare a farlo: il senso della richiesta di aumento del numero dei mandati è tutto lì. Senza bisogno di giustificazioni alte, come quella della volontà popolare: che, non a caso, viene tirata in ballo per giustificare la rielezione, ma nessuno evocherebbe se si trattasse del livello delle retribuzioni dei politici, che la volontà popolare vorrebbe certamente diminuire. Né si prende in considerazione che questa supposta volontà popolare è espressa da un numero di elettori sempre più piccolo (una minoranza, tecnicamente, neanche tanto ampia), ciò che mette in crisi l’idea stessa di rappresentatività reale.

Quasi ovunque esistono limiti alla durata del potere, esecutivo in particolare: dalla presidenza degli Stati Uniti ai sindaci delle città dimensionalmente significative. Perché non anche parlamentari o consiglieri? In alcuni casi il limite c’è o è autoimposto, in altri sarebbe auspicabile, per favorire il ricambio: ma le situazioni sono imparagonabili. Chi governa ha un potere enormemente più ampio rispetto a chi rappresenta. Ed è nell’esecutivo che si annidano i maggiori rischi di creare consorterie, clientele, ‘scambi’ impropri, lavori per i soliti noti, forme di corruzione anche soft, servilismo cortigiano, autoperpetuazione, ma anche solo comportamenti abitudinari, che per definizione non sono mai innovativi (mentre il mondo cambia). E poi avere una scadenza obbliga i partiti a preparare la successione, il ricambio, il ringiovanimento anche di visione, mentre i leader, per quanto popolari, invecchiano e si irrigidiscono nella propria.

È fuorviante invece ricorrere a paralleli implausibili, come quelli con professioni ad alto tasso di tecnicità, e con funzioni completamente diverse, come i magistrati o i professori universitari (l’intento polemico è evidente, visto che la critica ai due mandati viene spesso, con argomenti diversi, da questi mondi). Il bersaglio è peraltro scelto male: i professori universitari, per citare la categoria cui appartengo (ma vale per molti altri), nei loro organismi rappresentativi – rettori e direttori di dipartimento, ma anche solo presidenti di corso di laurea – sono precisamente soggetti a un limite di mandati, e questo per scelta stessa delle università. Semmai sarebbe giusto ragionare non sull’abolizione ma sull’estensione del limite ad altri tipi di cariche rappresentative, anche di tipo privatistico (ancor più se finanziate con denaro pubblico): dalle rappresentanze sportive a quelle delle categorie professionali.

Luca Zaia è certamente un politico di successo. Gode, per suo merito, di un consenso elevatissimo, molto al di là del suo partito e della stessa coalizione che lo sostiene. Segno evidente di una straordinaria capacità di navigazione e intuizione politica. Proprio per questo mette malinconia che la fine del suo mandato coincida con la discussione sulla sua continuazione. Manda un segnale crepuscolare il fatto che chi già vent’anni fa era vice-presidente, e che se avesse ottenuto il quarto mandato da presidente sarebbe durato quanto il più noto e non democraticissimo ventennio, lasci coincidere la sua fine non con un messaggio alto di innovazione, ma con uno di pura conservazione, come ceto politico e anche personale. Lascia intravedere, anche se non è questa l’intenzione, che i politici si preoccupano soprattutto di sé stessi. Non proprio un invito alla partecipazione rivolto a un’opinione pubblica già disillusa di suo. Senza contare l’imbarazzante segnale di voler cambiare le regole del gioco a partita in corso: partita che si era iniziata conoscendone le regole di ingaggio.

Su una cosa tuttavia Zaia ha ragione. È scorretto che regioni a statuto speciale o province autonome possano fare differentemente, e alcune vadano senza vergogna in questa direzione. Ma dovrebbe, semmai, essere l’occasione per rimettere mano alle forme attuali della ‘specialità’, anch’esse storicamente superate e discutibili nelle modalità in cui si sono sviluppate.