di Monica Coviello. Stralci dell’intervista pubblicata in Vanity Fair il 13 maggio 2025.
Per anni ha raccontato la realtà: la cronaca, la politica, i fatti del mondo. Ma oggi, dopo una vita vissuta nel tempo degli altri, Concita De Gregorio si concede il suo. Di madre in figlia, uscito oggi per Feltrinelli, è il suo primo romanzo. Ma, visto che «la realtà è sempre ispiratrice», anche questo suo ultimo libro parte da vicende davvero accadute. Prende le mosse da una storia familiare: la sua.
Nel romanzo si parla molto di cura. Ma non in modo idealizzato.
«Tutti gli affetti, anche l’amore, sono potenzialmente velenosi. La cura può guarire o avvelenare, dipende dal “quanto” e dal “quando”. Tutte le medicine, come le erbe, possono essere rimedi o veleni. E lo stesso vale per i gesti dell’amore. È un equilibrio costante, mai definitivo. Non esiste colpa, però, e spero che questo si senta in modo forte nel libro. Le mie protagoniste fanno del loro meglio, eppure possono sbagliare. Ma ce la mettono tutta».
Nel suo libro si parla molto di cura. Ma lei ha imparato a prendersi cura di se stessa?
«Quello che ho imparato nel tempo della mia malattia è che l’unico modo vero di prendersi cura di sé è prendersi cura di qualcun altro, uscire da se stessi e rivolgere le attenzioni a un’altra persona, a un progetto, a un compito. Risolvere un problema, mettersi al servizio di un obiettivo, fare una battaglia comune fa stare meglio. Almeno, per me funziona così».
Non ha mai avuto la sensazione che fosse meglio non condividere certi dolori?
«Mai: chiudersi è una prigione, che ti lascia da solo con il tuo dolore. Condividerlo, invece, è un atto di cura, per sé e per gli altri. Quando ho avuto il cancro, appena ho potuto, l’ho raccontato. Perché no? Perché vergognarsene? Perché temere di apparire deboli? Viviamo in una società che ci vuole invincibili, sempre performanti, ottimisti a tutti i costi. Ma la vita non è una gara, non è una scalata al successo. Tutti cadono, si ammalano, soffrono, perdono qualcuno, attraversano catastrofi improvvise. Dare un nome a tutto questo e condividerlo genera sollievo, per sé e per gli altri. È come creare un luogo in cui stare insieme, senza sentirsi soli. Nascondere la malattia fa parte di una visione tossica della società: non ti devi stancare, non ti devi fermare, devi essere incrollabile. Ma chi l’ha detto?».
sintesi di Alessandro Bruni
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