di Redazione. Pubblicato in Il Sussidiario del 9 maggio 2025.
Un nome, “Robertum Franciscum”, annunciato dalla Loggia delle benedizioni. Un istante per tradurlo mentalmente dal latino, e si intuisce subito che ogni pronostico è stato sovvertito. Poi la certezza: “Sanctae Romanae Ecclesiae cardinalem Prevost”. Il 267esimo successore di Pietro è l’americano Robert Francis Prevost, dell’Ordine degli agostiniani, ex prefetto del Dicastero dei vescovi, missionario in Perù, matematico di formazione, poi teologo canonista. È innanzitutto un pastore, ma conosce molto bene la Curia. Insomma, un profilo eclettico. Le caselle non funzionano. Le sue prime parole sono un saluto di pace, lo stesso della Pasqua.
Abbiamo raccolto le impressioni, a caldo, di Agostino Giovagnoli, ordinario di storia contemporanea nell’Università Cattolica di Milano, esperto di rapporti tra Stato e Chiesa. “È un profilo anomalo su tutti i fronti – spiega Giovagnoli – ma con un aspetto unificatore. E i cardinali sono stati molto coraggiosi”.
Professore, cosa vuol dire avere un Papa agostiniano?
Lo ha detto lui stesso nel saluto iniziale, citando Agostino: “Con voi sono cristiano e per voi vescovo”. Mi pare di trovarvi il senso più profondo della sinodalità, cioè di un’autorità che è in mezzo alla comunità; che non si concepisce isolatamente o al di sopra, ma vive la comunione come prima condizione dell’essere cristiani in mezzo ad altri fratelli.
Leone XIV ha subito parlato di pace. “Una pace disarmata e una pace disarmante”.
Ma è “la pace di Cristo risorto”, “una pace che proviene da Dio”. Una pace legata alla Croce e alla Resurrezione. Il primo messaggio del pontificato è questo e il richiamo a Francesco è forte. Ma vedo un altro concetto chiave espresso a più riprese.
Quale?
La missione è il cuore della Chiesa. Lo dice la biografia di Prevost e lui stesso lo ripropone almeno tre volte nel suo messaggio di saluto: invita la Chiesa ad essere missionaria, a portare il Vangelo nel mondo. Si percepisce nettamente il profilo di un Papa evangelizzatore. Anche in questo Leone XIV è nel solco di Francesco.
Altri passaggi che l’hanno colpita?
Non ho avvertito quegli accenni che alla vigilia sembravano accentuare l’importanza del “governo della Chiesa”. Certo, anche questo Papa la governerà a modo suo, come tutti i papi. Ma su questo tema c’è stata un’enfasi eccessiva, di provenienza sia esterna che interna.
Interna alla Chiesa, intende?
Sì, da parte di una Chiesa che sarebbe voluta tornare a un andamento più tranquillo, più tradizionale, più ordinato. Però – direi per fortuna – la Chiesa è più attratta dal compito di portare il Vangelo nel mondo. L’annuncio prevale, smuove la Chiesa e la induce a conformarsi alla sua stessa vocazione.
È facile titolare “Il primo papa americano della storia”. Prevost in realtà è una personalità composita. Viene dal Midwest americano (Illinois) ma è amatissimo in Perù, è pastore ma anche uomo di Curia.
Sì, è anomalo su tutti i fronti, ma io credo che l’aspetto prevalente, unificatore, sia quello missionario e che Francesco lo abbia chiamato per questo alla guida del Dicastero dei vescovi, perché scegliesse vescovi missionari, evangelizzatori.
Ritiene che la guida del dicastero dei vescovi abbia un ruolo centrale nel suo profilo?
Centrale forse no, perché la nomina è venuta tardi nella sua biografia, ma è comunque arrivata perché probabilmente Francesco ha voluto fare una scelta di discontinuità rispetto al privilegio della sola dottrina. Nondimeno, come diceva giustamente Ratzinger, l’alternativa nella Chiesa non è mai, in realtà, tra conservatori e progressisti, ma tra conservatori e missionari.
In altri termini, professore?
Il conservatore difende la dottrina; anche il missionario deve difenderla, ma cercando di farla capire a chi la incontra. Difende la dottrina comunicandola, incarnandola, in una proiezione verso l’umanità intera.
Torniamo all’americano anomalo.
Prevost è di origini francesi, italiane e spagnole; è figlio di migranti, proprio come lo era Bergoglio. Ma è assai più di lui un uomo del XXI secolo. La vastità delle sue esperienze, dal Perù alla Provincia agostiniana di Chicago, ai dicasteri romani, rispecchia un mondo sempre più segnato dalla mobilità umana e dal meticciato.
Il nome ha spiazzato tutti. È una scelta conservatrice?
Qui siamo nel campo delle ipotesi. Quando si parla di Leone XIII si pensa all’enciclica Rerum novarum, quindi all’apertura sociale. Io ho una mia congettura, e cioè che Prevost abbia voluto evitare tutti i nomi importanti dei papi dell’ultimo secolo: Pio, Giovanni, Paolo, Giovanni Paolo, Benedetto. Ma lo stesso vale per Francesco. Scelte che ci avrebbero portati ad inquadrarlo in uno schema precostituito.
Dunque si è smarcato. Ma perché Leone?
Soltanto lui, papa Prevost, potrà darci la risposta. Una cosa è certa: Leone XIII è stato il primo pontefice senza potere temporale. Lo ricordiamo normalmente per la dottrina sociale, ma ha molti altri meriti: l’apertura negli studi biblici, l’azione per la pace; svolse un’opera molto importante di pacificazione in America latina, e altro ancora.
Wojtyła e Ratzinger sono stati protagonisti del Concilio Vaticano II, Francesco è coetaneo del Concilio ma non vi ha preso parte; Prevost appartiene a una generazione successiva. Cosa cambia?
È vero, Prevost è figlio di un Concilio che non ha vissuto neppure da lontano. Il post-Concilio è per molti versi un unico, lungo confronto, anche aspro e divisivo, sulla sua interpretazione. Basti pensare a Ratzinger: per tutta la vita ne ha contrastato l’eredità distorta. Prevost potrebbe avere una posizione differente.
Quale potrebbe essere?
Quella di una fedeltà essenziale al Concilio, più che agli aspetti sottolineati dagli uni o dagli altri. Viene in mente Giovanni Paolo II, quando diceva che il Vaticano II è ormai dentro la tradizione della Chiesa – e non fuori di essa.
Secondo lei a Washington potranno dire, di papa Leone XIV, che è un alleato?
No, per mille motivi. Però Trump è stato abilissimo nel fare subito un endorsement su X. C’è da dire che i cardinali elettori hanno avuto un coraggio enorme…
Per quale motivo?
Perché fare papa un cardinale statunitense, da un punto di vista geopolitico, è un grande rischio: il fatto che Prevost sia americano, sia pure americano sui generis, lo rende potenzialmente inviso a tre quarti del mondo. Lo dico al netto di ogni considerazione sulla sua personalità, che evoca saggezza e mitezza a prima vista. Ma detto questo, non è un papa trumpiano.
Quel tweet del 3 febbraio 2025 molto netto verso JD Vance parla chiaro: “Vance is wrong: Jesus doesn’t ask us to rank our love for others” (Vance sbaglia: Gesù non ci chiede di fare una classifica del nostro amore per gli altri).
Sì. Vance si sbaglia perché sant’Agostino non ha mai detto che bisogna amare i vicini e non i lontani. Non è questa, dice Prevost, la lettura giusta dell’ordo amoris di Agostino. Ma chissà come giocherà la sua provenienza. Potrebbe anche ammansire Trump…