I tentacoli della tecnologia hanno reso i droni oggetti multipotenti: concimano i campi, creano spettacolari giochi di luce notturni, riprendono dall’alto gli eventi sportivi, consegnano merci, documentano le nostre vacanze. Il loro ronzio è un segno dei tempi. Eppure nulla di tutto questo ha impedito ai droni di diventare, almeno per me e ben prima di tutto questo, il simbolo dei nuovi cerimoniali della guerra.
Portano le bombe i droni, inseguono i loro bersagli fin dentro le case o nelle loro automobili, sanciscono il confronto impari, che è quello di tutte le guerre, fra il proiettile ed il suo bersaglio, pur dentro una rilevante differenza: questa volta il proiettile ha una telecamera accesa e noi, che non siamo né proiettile né bersaglio, potremo seguire lo spettacolo dal divano di casa nostra. Il rito nauseante della morte di qualcuno, ucciso da qualcun altro a centinaia o migliaia di chilometri di distanza, seduto, l’assassino, su un divano esattamente come il nostro. Ecco cosa sono soprattutto i droni oggi per me: la tecnologia, la mia amata tecnologia, che si fa orrore.
Nessuno spettacolo luminoso organizzato sincronizzando nella notte migliaia di macchinette nel cielo di una città potrà mai equiparare il ronzio del singolo drone che sopra il soldato ferito dentro una trincea fangosa da qualche parte in Ucraina lascia cadere la bomba che lo ucciderà. Lui la vedrà staccarsi, noi la osserveremo con lui e osserveremo, subito dopo la piccola esplosione, quel corpo senza vita.
Nessuna splendida ripresa dal drone del grande sciatore in velocissimo equilibrio sulla Streif di Kitzbühel potrà mai competere con l’orrore cinematografico dell’ultima immagine inviata dal drone mentre insegue e poi penetra, un istante prima di esplodere, dentro l’auto di passaggio che è diventata il suo bersaglio, lasciando allo spettatore un groviglio di lamiere e un ultimo fermo immagine di puntini grigi.
È ormai impossibile scindere l’orrore del maschio dell’ape che distrugge il mondo da noi stessi. Siamo noi che distruggiamo il mondo nel momento in cui osserviamo quelle immagini.
Già negli ultimi decenni la cartografia per immagini (fotografiche, video e satellitari) delle enormi distruzioni e della cattiveria degli uomini era diventata precisa al millimetro; documenti terribili, spesso distribuiti dai media nella speranza che le testimonianze della nostra crudeltà di esseri poco umani ci aprissero gli occhi e ci facessero rinsavire.
I droni hanno reso documentabile e a basso costo anche il passo che mancava, quello che precede la morte e la distruzione raccontata dai reporter: hanno aggiunto informazioni, rendendo completa la sequenza temporale. La macchina è il testimone e l’esecutore, il testimone disumano che, mentre uccide, allevia – se mai costui le avesse avute – le angosce dell’assassino in carne e ossa, dietro allo schermo del suo videogioco.
Chi lo avrebbe detto: i videogiochi, che per anni i cretini hanno indicato come la causa dei nostri istinti violenti, sono diventati l’esatto contrario: una piccola risibile panacea. Il diaframma dietro il quale nascondere la nostra propensione all’odio. Guarda che non è la vita, è un videogioco!
Il colpo di grazia al soldato morente cliccando il tasto di un mouse, come una responsabilità attenuata, senza il sangue intorno, senza l’odore e i suoni della morte a ricordarci chi siamo.
Tutto si trasforma in gioco nell’era dei droni, fino a quando non saremo noi il bersaglio e qualcun altro, seduto su un divano senza incubi, il nostro proiettile.
Commento di Alessandro Bruni. Il drone è un grilletto che per agire ha bisogno di un dito, che però noi non vediamo, non rischia, non sanguina, non è "responsabile". Nessuno è individualmente responsabile, ma tutti sono responsabili, che nel mondo contemporaneo significa che nessuno è responsabile, anzi i responsabili sono quelli che soccombono alla sua azione: sono responsabili per aver suscitato il nostro odio e la nostra "giusta" mano armata.