di Ivo Lizzola. Pedagogista, analista della prossimità. Pubblicato in La barca e il mare il 7 maggio 2025.
Un incontro di Papa Francesco con i cappellani e altri operatori delle carceri.
Non legge la relazione che aveva preparato e si mette a raccontare i suoi ricordi personali.
Emerge la convinzione che i detenuti sono nostri fratelli. Anche noi bisognosi di misericordia
“Chi sono io per essere qui, e loro lì?” La frase di Francesco, che lui avrebbe ripetuto, e che sarebbe stata molto citata, la ascoltiamo insieme con il racconto delle sue visite al carcere di Buenos Aires. Così il papa inizia a rispondere agli indirizzi di saluto e alla presentazione dei risultati della intensa tre giorni di studio di un centinaio di cappellani delle carceri italiane, di un gruppo di suore e di sei laici invitati. È l’ottobre del 2013, all’avvio di un papato tutto teso a segnare le tracce di un nuovo inizio.
I cappellani delle carceri e Papa Francesco
Il tema della tre giorni: la giustizia riparativa e i suoi cammini difficili e promettenti in Italia dentro ad oltre le traiettorie della esecuzione penale. La concentrazione del pontefice e la semplicità umile e lieta del suo giungere all’incontro, e di restarvi ben presente, era qualcosa che aveva colpito tutti.
Francesco ascoltava esperienza e riflessione di questo gruppo di uomini e donne che stavano nei percorsi delle ferite, della colpa, della difficile speranza, di un desiderio di vita spesso tenuto stretto tra i denti.
Ascolta e sente, con intensità verrebbe da dire, dei sentieri delicati, fragili e sofferti tracciati a partire dall’ascolto e dalla esposizione al dolore dell’altro. Cercando risposte in un racconto riaperto al “perché a me viene fatto del male?”; o cercando di provare a rendere sostenibile il “come posso essere stato capace di ferire? di tradire la fiducia?”
Il corpo di Francesco si protende sulla sedia, gli occhi sui visi delle persone, resta come vigile, aperto.
Don Virgilio Balducchi, bergamasco chiamato a coordinare e promuovere l’operato dei cappellani italiani, tratteggia con efficacia l’orizzonte di una giustizia dell’incontro, della rigenerazione della vita oltre (e dentro) le ferite. Un fare la giustizia oltre e non alternativo alla giustizia penale, che vuole essere attenta alle persone offese, alle relazioni ferite ed alla loro energia, alla speranza. Ed alla funzione dei “terzi”, donne e uomini capaci di essere vicini e di far da ponte tra chi soffre e cerca, e prova ad aprire il futuro.
Giustizia da fare e riconciliazione da riaprire tra donne e uomini (che hanno arrecato e subito sofferenza) comunque non innocenti.
Al posto della relazione, i suoi ricordi
Si vede che per il papa il lessico, ed anche la prospettiva, non sono abituali. Ma è chiaro che l’esperienza umana di cui si narra, e ciò che in essa si muove e svela, lo tocca e lo muove nel sentire e nel pensare.
Non ricorda e non riprenderà più in mano i due fogli preparati per l’incontro: chiede che gli vengano inviati i materiali e le riflessioni della tre giorni. Decide di parlare a braccio, chiedendo di farsi vicini a lui con le sedie.
Parte, appunto dai ricordi dell’esperienza Argentina, e dalle relazioni costruite con diversi uomini detenuti, che gli hanno affidato le loro storie, il loro dolore, la forza del loro senso di colpa. “La colpa è la vera pena” dice riprendendo il confratello Carlo Maria Martini. Ci dice che dedica il pomeriggio della domenica alle telefonate. Una di queste sempre raggiunge un suo antico amico, detenuto da molti anni in un carcere di alta sicurezza. “Perché lui è lì ed io sono qui?”.
I detenuti, nostri fratelli
Ma, certo, qui siamo al riconoscimento della dignità del reo, alla questione di fargli vivere un percorso di riscatto e ricostruzione personale. Riconoscere che le persone detenute sono nostri fratelli e sorelle, che “sono come noi”, come a volte si dice. Senza considerare che questo vuol dire anche che “noi siamo come loro”: che anche noi dentro abbiamo le tensioni, i conflitti, le fatiche e le potenzialità di male, di separazione e di violenza che li han mossi. Che a volte abbiamo agite, che altre solo per grazia non abbiamo agito.
Anche noi abbiamo bisogno della misericordia, di Dio e degli uomini, di sentirla e di ottenerla.
Quello che ho sentito – ha proseguito Francesco – “è ancor più grande”, perché dice che l’amore è più forte della morte, che l’incontro e il dolore guardato negli occhi possono aprire a vita nuova. Che la giustizia può aprire a questo.
È un miracolo? – quasi sussurra – sì uno di quelli che nella vita si aprono, maturati o improvvisi, nell’offrire la vita, nello stare nella cura, nel perdonare, nell’aprire possibilità nuove, “ impossibili”.
Capita anche dopo che si è fatto del male. “Tra uomini e donne non innocenti”, che serbano la forma di qualche tratto dell’immagine di Dio che portano comunque nel profondo, magari sfigurata.
Francesco pensoso e grato
Tutti attorno a lui, che aveva ascoltato sorpreso, teso e preso: il papa, toccato, aveva come lasciato i pensieri di prima e aveva camminato sui sentieri sui quali si era sentito invitato.
“Misericordia chiedo e non sacrifici”: segnavia per i sentieri di giustizia, memorie dei doni ricevuti, e noi resi capaci di camminare in nuove relazioni, e in inedite narrazioni da offrire. Esigenti come chiede l’ascolto e il rispetto della vittima. Non innocenti, e pure capaci di riprendere in sé e negli altri l’attesa.
Dalla prima infanzia fino alla tomba qualcosa in fondo al cuore di ogni essere umano, nonostante tutta l’esperienza dei crimini compiuti, sofferti e osservati, si aspetta invincibilmente che gli venga fatto del bene e non del male. È questo, anzitutto, che è sacro in ogni essere umano” (Simone Weil, La persona e il sacro)