Nei giorni scorsi, su questo giornale, due istruttive pagine di inchiesta ci informavano, da un lato, sulla crisi della chiesa veneta, e dall’altro, sull’ennesima polemica intorno alla costruzione di una moschea. Due notizie che ci raccontano due pezzi diversi della medesima storia. Che è utile mettere in sequenza, e intorno alle quali costruire un ragionamento.
Il calo delle vocazioni sacerdotali (e di conseguenza il loro invecchiamento) non è solo un problema della chiesa cattolica, ma in essa è particolarmente visibile: circa 6000 in Veneto mezzo secolo fa, 3700 oggi, ma in calo tendenziale ulteriore e drammatico. È presente anche in altre chiese e religioni, e rappresenta la crisi di motivazione di un ruolo in quanto tale sempre meno sentito e considerato meno appagante. Ma in altre forme religiose (dai pentecostali al mondo new age) è invece ancora attrattivo e pregno di significato. Il che ci dice che la forma non è irrilevante, anche rispetto alla possibilità e alla capacità di veicolare un contenuto. Ad esso bisogna aggiungere l’abbandono della tonaca (che peraltro quasi nessuno mette più: è rimasto un modo di dire) da parte di chi prete lo è già, e se ne va via, in fondo per gli stessi motivi per cui altri non vengono più: per una crisi di senso, ma anche per desiderio d’altro (incluso l’amore e la sessualità: che altri magari vivono all’interno e di nascosto).
Quello che era un mestiere una volta stimolante, di prestigio e con adeguato riconoscimento sociale, oggi è spesso, in molte sue forme, faticoso e ripetitivo, mentre la sua centralità sociale e la sua influenza sono tracollati, riducendo i preti alla meno attrattiva figura di “funzionari di Dio”, per riprendere il titolo di uno splendido libro di Eugen Drewermann, teologo e psicanalista (e oggi ex-sacerdote), che i suoi confratelli li ha avuti in terapia per una vita. E questo a dispetto dello spessore umano, spesso notevolissimo, di figure sacerdotali che in taluni casi diventano esempi di riferimento anche per il mondo laico, e preziosi costruttori di comunità. Calano anche le vocazioni di monaci e suore, e di conseguenza anche i servizi, da queste ultime in particolare, erogati, talvolta come manodopera a basso costo, nel mondo dell’educazione e dell’assistenza: anche questo un modello da mettere in discussione come tale.
A parole il rimedio sarebbe coinvolgere i laici. Ma poi, nella pratica, i parroci si tengono stretti potere decisionale e cassa, e gerarchia delle priorità, lasciando i laici, pure indispensabili nella gestione concreta, in posizione ancillare e subordinata (non vero coinvolgimento, mai alla pari, e soprattutto niente ruoli decisionali anche simbolicamente rilevanti per le donne, senza la cui presenza e il cui lavoro, pure, le parrocchie non starebbero in piedi): anche per responsabilità dei fedeli, che continuano ad avere un’idea di chiesa clericocentrica e quindi de-responsabilizzante per loro stessi.
Il ruolo del prete finisce per essere soprattutto rassicurante, in particolare per gli anziani, che oggi costituiscono la presenza maggioritaria alle funzioni: li tranquillizza che nulla è cambiato. Ma non è così, e gli altri allora non entrano nemmeno più, perché non riconoscono l’ambiente come proprio. L’effetto è il crollo della partecipazione settimanale, ormai ridotta a meno di un quinto della popolazione (molto meno, nelle città) e di conseguenza dei contributi economici, cioè a dire della fiducia.
Il Covid ha dato il colpo di grazia a un processo che sarebbe avvenuto comunque (anche perché viene da molto lontano: i primi studi sulla secolarizzazione risalgono agli anni Sessanta), ma più gradualmente. La disaffezione dei giovani è cresciuta, e la prevalenza di anziani che rispondono a una fede espressa in maniera tradizionalista, non più comprensibile per le nuove generazioni (anche nelle cose minute, come nella punitiva insistenza a mantenere gli orari delle messe al mattino in orari incompatibili per i giovani che il sabato fanno legittimamente tardi), allontanandole ulteriormente.
Gli altri dati completano il quadro. Educazione religiosa al massimo fino alla cresima, matrimoni civili in crescita esponenziale (da un decimo mezzo secolo fa a due terzi oggi: e molti di quel terzo rimasto, per motivi che spesso hanno a che fare più con l’estetica che con la fede), convivenze in aumento, nascite al di fuori del matrimonio che sono oltre la metà tra le coppie giovani, riducendo a fortiori il numero di battesimi.
Eppure la domanda di spiritualità non è diminuita, e nuove forme di religiosità si fanno strada. All’interno della chiesa cattolica e al suo esterno. Incluso nelle nuove religioni arrivate per via migratoria, di cui quella che fa più discutere è l’islam, ma che tutte testimoniano un nuovo e vivace pluralismo religioso. Esse non pongono alcun problema di concorrenza, e peraltro sono soggette alle medesime tendenze in precedenza evidenziate: solo in maniera meno visibile e più lenta. Ma a proposito dell’islam detta ancora legge, o per lo meno urla più forte, lo schema leghista della protesta a prescindere. Anche se si assiste a una maturazione altrove, incluso tra le forze politiche di centrodestra, meno disposte a farsi trascinare sul terreno di un inutile scontro, e nella società.
Qui la religione, e concretamente la moschea, gioca un ruolo di integrazione, e dunque di maggiore sicurezza, come attestano anche le forze dell’ordine, mentre è il pregiudizio che ad esse si oppone che produce dis-integrazione e conflitto sociale. La discriminazione è sempre e solo riferita a musulmani e moschee, contro le quali la regione si è già prodotta in una legge discriminatoria (contro cui si sono schierate tutte le comunità religiose, dai cattolici agli ebrei) quanto inutile. Ma la moschea fa sentire i musulmani più cittadini in quanto riconosciuti anche nella loro specificità religiosa (peraltro costituzionalmente protetta, come quella di tutti) e quindi più integrati.
E a chi, per giustificare la sua contrarietà, richiede prima un accordo con lo Stato, rispondiamo, per esperienza (ero membro del Consiglio per l’islam italiano, presso il Ministero dell’interno), che è lo Stato (rappresentato dagli stessi partiti che localmente invocano un accordo che nazionalmente impediscono) che non lo vuole. Le organizzazioni islamiche lo firmerebbero domani. Chiedessero dunque, nel caso, ai loro rappresentanti di darsi una mossa.