di Gianni Credit. Editoriale pubblicato in Il Sussidiario del 7 maggio 2025.
“L’azione per il clima ha raggiunto un punto morto”, nonostante “l’anno scorso sia stato il più caldo mai registrato”. “La fiducia dell’opinione pubblica nelle politiche di riduzione delle emissioni e di stimolo alla crescita verde sta calando, aggravata dal fatto che molti dei benefici promessi dalle politiche climatiche del passato non si sono concretizzati”. Non da ultimo: “Un quasi fallimento ha aperto la strada ai populisti che sfruttano e inquadrano l’azione per il clima in un’agenda guidata dalle élite”.
La diagnosi è di Tony Blair, l’ex Premier britannico, in uno studio appena pubblicato dall’Institute for Global Change da lui fondato. È una posizione coraggiosa da parte di un leader che ha incarnato fra i primi i decenni ottimistici della “fine della storia”, che ha avuto nella transizione eco-energetica uno dei suoi mantra.
L’ideologo di quella stagione – lo storico harvardiano Francis Fukuyama – in queste settimane appare invece arroccato in una resistenza intransigente e rabbiosa: la rimessa in discussione della palingenesi verde sarebbe solo uno dei tanti atti di criminalità politico-culturale perpetrati da Donald Trump, inatteso e fastidioso incidente storico. Insistere-insistere-insistere sulla rivoluzione verde tutta e subito, come disegnata ormai tre o quattro decenni fa, sarebbe dunque un atteggiamento obbligato ed esemplare di “resistenza democratica occidentale”.
Blair – che ha guidato per davvero una potenza geopolitico-finanziaria occidentale come la Gran Bretagna – pare invece deciso nel raccomandare una svolta: “Il dibattito sul clima dev’essere sottratto alle mani degli attivisti e messo nelle mani dei politici. È necessaria una voce realistica nel dibattito sul clima, né ideologica né allarmistica, ma orientata alle soluzioni e ai risultati. Dobbiamo abbandonare i continui allarmismi, respingendo le richieste irrealistiche ma rifiutando le argomentazioni dello status quo basato sui combustibili fossili”.
Dunque: contrastare il neo-anti-ambientalismo di Trump si deve, ma non per ragioni politiche. E si può: ma non insistendo sull’utopismo illuminista green. Richiamare in campo Greta e tornare a riempire il venerdì le piazze di giovani in trikend anticipato sarebbe uno dei primi errori: significherebbe fra l’altro continuare a provocare e quindi legittimare per via populista il montante populismo anti-ambientalista.
All’analisi di Blair manca probabilmente un pezzo del problema: un esame altrettanto spietato del ruolo delle lobby economico-finanziarie che hanno ininterrottamente mosso gli attivisti di tutte le tribune (mediatiche e accademiche). Gli investimenti sul passaggio alle energie innovative “dure e pure” (anzitutto con l’esclusione del nucleare di nuova generazione) sono stati ingenti: soprattutto privati. Per questo non è affatto escluso che la parola stessa di un Blair – già Premier della City londinese – passi come acqua sulla pelle di pietra del turbo-capitalismo verniciato di verde.