di Paolo Guandalini e Enrico Zappatore. Pubblicato in Il Mulino del 13 maggio 2025.
Qualche anno fa ci è capitato di dover consigliare a una studentessa di terza media quale scuola scegliere a settembre. In realtà, qualunque scuola sarebbe andata bene: la studentessa era capace, sveglia, curiosa, anche brillante, e aveva un’ottima media in tutte le materie. I genitori – immigrati da poco in Italia – volevano che si iscrivesse a un professionale: un po’ perché speravano che trovasse rapidamente un lavoro dopo il diploma; un po’ perché erano convinti che il liceo fosse troppo difficile per lei – che in realtà, sembrava a noi, un liceo avrebbe potuto frequentarlo benissimo.
Alla fine, non sapendo bene che cosa fare, la ragazza si è iscritta a un professionale, e a noi è rimasta l’impressione di aver lavorato male, di non esserci spesi abbastanza. Non tanto perché ci sia qualcosa di male nello scegliere un professionale al posto di un liceo, ma perché era ed è rimasto forte il dubbio che non si sia davvero trattato di una scelta libera, consapevole.
Ci siamo detti che avremmo potuto essere più persuasivi con i genitori, insistere, provare a convincerli che non prendere neppure in considerazione un liceo sarebbe stato un peccato: l’università, le migliori prospettive, i lavori più gratificanti, in fondo perché non tentare? Eppure. Mica tutti gli studenti brillanti devono per forza finire al liceo: dipende. E poi metti il caso che la ragazza si fosse trovata in difficoltà: come se la sarebbe cavata, per esempio, se la famiglia non avesse potuto pagare delle ripetizioni (problema nel problema, lo sappiamo)?
Quanto al primo aspetto, fino a poco tempo fa, cioè fino all’introduzione dei docenti tutor, l’unico dispositivo veramente nazionale per fare orientamento a scuola era il consiglio orientativo. Tutte le altre attività (incontri con orientatori, psicologi, visite alle scuole superiori) erano a discrezione delle singole scuole, che potevano quindi scegliere quante attività pianificare, come pianificarle e persino se pianificarle. La riforma promossa da Valditara ha cambiato un po’ il quadro, introducendo l’istituzione di 30 ore di orientamento annuali alle medie e al primo biennio delle superiori e di 30 ore curricolari per il triennio, un portfolio digitale personale per ogni studente (una sorta di diario della propria formazione) e, soprattutto, la figura del docente tutor, cioè un insegnante che, dopo aver ricevuto una formazione specifica, dovrebbe diventare il referente per l’orientamento all’interno della scuola.
La prima coorte di docenti tutor ha concluso da poco il percorso di formazione e per valutare gli effetti di una riforma del genere ci vuole tempo. Quello che sappiamo per certo è che la grande autonomia di cui hanno goduto le scuole fino a oggi ha dato risultati abbastanza sconfortanti. Stando all’ultimo rapporto sul profilo dei neo-diplomati pubblicato da AlmaDiploma, circa il 92% degli studenti ha svolto attività di orientamento alle scuole medie, ma meno della metà le ha trovate utili. Un po’ diverso invece il quadro alle superiori: appena il 61,5% degli studenti ha dichiarato di aver partecipato ad attività organizzate dal proprio istituto (ma il dato cambia parecchio a seconda degli indirizzi, delle regioni).
Vanno fatte almeno due precisazioni: la prima è che il rapporto considera una popolazione studentesca che proviene soprattutto da alcune regioni (Lombardia, Lazio ed Emilia-Romagna); la seconda è che i professionali sono un po’ meno presenti nel campione statistico rispetto alla distribuzione nazionale (l’8,7% nel campione; quasi il 17% a livello nazionale). Perciò è molto probabile che il quadro restituito dai dati di AlmaDiploma approssimi per difetto, e che le cose vadano anche peggio di così.
Veniamo ora al secondo aspetto, che è un po’ più ampio e ha due ordini di grandezza. Da una parte c’è il fatto che è impossibile prevedere la traiettoria di vita di un tredicenne: a quell’età, se si è fortunati, ci sono materie che appassionano, per le quali ci si sente più portati; ma, appunto, se si è fortunati, e d'altronde è facilissimo sbagliare, cambiare idea. Così, come spesso capita a scuola, succede che gli insegnanti se la cavano come possono: approssimano, tirano a indovinare, il più delle volte sottovalutando le capacità potenziali ed effettive dello studente, e sopravvalutando altri fattori, tipo il livello di istruzione dei genitori, la loro situazione economica, il genere degli studenti. E il risultato (esistono già studi che lo dimostrano) è che, a parità di rendimento, i figli di migranti o di operai vengono più spesso orientati verso un tecnico o un professionale anche quando potrebbero frequentare con profitto un liceo; mentre alle studentesse viene più facilmente consigliato un indirizzo umanistico piuttosto che uno scientifico.
Dall’altra parte c’è il fatto che le politiche di manutenzione non bastano. Cioè: certo che è importante definire un monte orario e strutturare dei percorsi di orientamento efficaci, certo che serve fornire una formazione specifica agli insegnanti, certo che tutte queste cose contano e vanno fatte; ma non bastano, perché a limitare le opportunità di accesso alle risorse da parte degli studenti, a ratificare le distinzioni di classe e a esacerbare le disuguaglianze è – molto più del lavoro di singoli istituti e insegnanti – l'architettura formativa del sistema scolastico, cioè i modi, i tempi e gli spazi dell’apprendimento, cioè il contesto in cui dirigenti, insegnanti e studenti devono loro malgrado lavorare, cioè l’attuale struttura dei cicli scolastici, un tracking che interviene troppo presto, la moltiplicazione delle filiere e delle discipline, la rigidità dei percorsi secondari.
Ora, tutte le informazioni che abbiamo per ragionare intorno alla questione dei cicli scolastici ci dicono che i percorsi vanno differenziati il più tardi possibile, tra i 16 e i 17 anni, e che i Paesi che negli anni Settanta hanno avviato dei processi di comprensivizzazione, sostituendo un segmento unitario agli indirizzi – come Svezia, Finlandia e Gran Bretagna –, ne hanno guadagnato in termini di riduzione delle disuguaglianze intergenerazionali (riuscendo cioè a compensare, almeno in parte, il peso del background socioeconomico), di maggiori opportunità per gli studenti e di outcomes educativi (sebbene i dati in questo senso siano un po’ più incerti). Se si vanno a vedere, per esempio, i risultati dei test Pisa, Timms e Pirls, si notano soprattutto due cose: a) che i cinque Paesi europei (Estonia, Finlandia, Irlanda, Polonia e Svezia) con i risultati migliori in lettura hanno sistemi comprensivi.
Il quadro è pressappoco identico se si controllano i risultati in scienze e matematica (Oecd, 2019); e b) che confrontando il rapporto tra rendimento scolastico, background socioeconomico degli studenti e politiche educative, si vede appunto che le disuguaglianze in termini di opportunità diminuiscono notevolmente quando la canalizzazione avviene in età avanzata. Poi, certo, correlazione non significa causalità, e può benissimo darsi che avere, poniamo, edifici meno fatiscenti, insegnanti più preparati e il tempo pieno garantito a tutti basterebbe per ottenere risultati simili.
Può darsi. E però resta il fatto che il peso che ha l'organizzazione del sistema scolastico sulla didattica è imparagonabile a quello che hanno le scelte dei singoli insegnanti, dei dirigenti. C’entra tutto; ma portare insegnanti preparati in classe è inutile se poi non li si mette nelle condizioni di fare le cose come si deve.
Che cosa cambiare dunque? Niente, verrebbe da dire, considerando che in Italia ogni governo che ha provato a toccare gli ordinamenti ha finito per bruciare gran parte del suo capitale politico, per tante ragioni diverse: perché è una riforma che non piace a molti insegnanti delle superiori; perché significa fare un certo sforzo per convincersi, e per convincere accademici, associazioni di categoria, insegnanti e genitori, che il forte modello liceale può e deve essere messo in discussione; perché vuol dire investire un mucchio di soldi in edifici, personale e risorse; e soprattutto perché negli anni si è accumulato un tale numero di ritardi, barriere e inadempienze che si ha l’impressione che per mettervi mano bisognerebbe demolire gran parte della macchina. E però cambiare bisogna, magari introducendo piccole modifiche che a lungo andare migliorino la didattica senza stravolgere il sistema, che garantiscano agli studenti livelli di apprendimento decenti e diffusi e magari limitino il rischio di restare impigliati nelle maglie di un sistema, come dicevamo, ancora troppo chiuso e rigido.
Si potrebbe cominciare, per esempio, prendendo sul serio l’articolo 8 della legge sull’autonomia, ancora troppo poco applicato, e introducendo una qualche forma di comprensivizzazione anche nell’ultimo biennio dell’obbligo. Ora, l’articolo dispone che il curricolo debba essere definito a livello nazionale per circa l’80%, e che per il restante 20% siano i singoli istituti a definire le discipline e i loro spazi orari. Vuol dire che ogni scuola potrebbe decidere su circa 6 ore settimanali, e cioè uno spazio sufficiente per flettere il curricolo verso le esigenze di comprensivizzazione di cui sopra, riducendo il più possibile le ore dedicate alle discipline specialistiche per dedicare più tempo agli assi fondamentali della formazione di base (linguistico, matematico, scientifico e storico) e per fare in modo che, almeno nei primi due anni, il percorso sia un po’ più unitario.
Insomma, bisognerebbe impegnarsi per garantire un’effettiva articolazione 2+3 del percorso didattico alla secondaria di secondo grado (e non solo nominale, con discipline per le quali esiste semplicemente un quinquennio), facendo meno ma meglio, rinunciando a questa fissazione venefica per l’infarinatura – l’idea che riempiendo i programmi, moltiplicando gli argomenti, gli autori, le pagine, qualcosa resterà; e invece non capita mai –, dando più tempo agli studenti per riflettere su una scelta che avrà un impatto significativo sulla loro vita e offrendo l’opportunità di cambiare indirizzo anche a 16 anni – riducendo così il rischio che una scelta sbagliata, a cui non di rado segue una bocciatura, diventi una ragione sufficiente per lasciare gli studi. In questo senso – e solo in questo senso – la scuola dovrebbe puntare a essere un istituto il più conservatore possibile il più a lungo possibile: perché uno studente che sa leggere e scrivere bene, che ha una solida formazione matematica e scientifica, sa anche pensare e scegliere bene, cioè con più cognizione di causa.
La buona notizia è che non serve inventare: basterebbe mettere a sistema le esperienze più virtuose che già approfittano degli spazi lasciati dall’autonomia, come il caso del biennio unitario in Emilia e nella provincia di Trento.