di Andrea Gandini. Economista, analista del futuro sostenibile.
Non sono così deludenti i risultati del referendum perché i temi del lavoro sono oggi meno sentiti che in passato e i quesiti erano molto “ostici”. In origine era previsto il quesito sull’autonomia regionale differenziata che avrebbe di certo aumentato i votanti. Il fatto che abbiano votato 14,1 milioni di italiani (su 46, 13 milioni sono i pensionati poco interessati) indica il grande interesse sul lavoro e come far fronte all’immigrazione (tema iper complesso che qui non affronto). Permane alto l’interesse, per fortuna, per chi è ingiustamente licenziato, in quanto per molti “non solo di denaro si vive (indennità)” o per il fatto che con troppi sub appalti ci si liberi di importanti doveri sulla sicurezza sul lavoro (e sui salari).
Dalla scarsa affluenza emerge però indirettamente anche una critica a chi pensa di difendere il lavoro solo inasprendo controlli e norme (che pure ci vogliono) per i lavoratori più deboli, in quanto è in corso da unventennio un forte cambiamento nel mercato del lavoro. Se è vero che l’Italia ha ancora il più basso tasso di occupazione nella UE (62% vs una media di 65% che sale oltre il 70% nei paesi più forti), nonostante l’aumento di occupati (un milione) degli ultimi 3 anni, è anche vero che si sta ribaltando il rapporto tra Domanda e Offerta di lavoro, al punto che in alcune mansioni le imprese non trovano più lavoratori.
Nei decenni passati era molto più complicato trovare lavoro, in quanto da un lato è aumentata la Domanda di lavoro delle imprese (anche se spesso si tratta di lavoro povero, pagato poco, per cui ci stiamo avviando ad una “piena sottoccupazione”), dall’altro diminuisce l’Offerta di giovani per il forte calo demografico che è in corso.
Analizzando i singoli mercati del lavoro delle varie città sia la Nord che al Sud, si nota che nel 2025 si presenteranno sul mercato del lavoro circa la metà dei giovani (tra i 20 e i 27 anni) rispetto a coloro che vanno in pensione. I giovani che mancano non saranno però rimpiazzati dagli immigrati, come pure la narrazione mainstream fa credere perché dei 182mila ingressi legali richiesti dal Governo ne arriveranno non più di 40mila. E’ già successo infatti negli anni scorsi a causa della cervellotica procedura che prevede che un imprenditore possa assumere legalmente un immigrato solo se non è illegale e come tale non può che risiedere all’estero e che quindi né conosce né ha mai visto di persona.
Chi dunque rimpiazza i nostri giovani che mancano? Una parte sono anziani che rinviano la pensione e ciò spiega perché l’aumento degli occupati degli ultimi 3 anni riguarda quasi tutti over 50. Una parte più piccola verrà dall’immigrazione e da disoccupati. La minaccia maggiore per le nostre imprese e l’Italia come Stato viene, oltrechè dal calo demografico, dalla “fuga” all’estero, in quanto siamo in presenza di un enorme cambiamento tra Domanda delle imprese e Offerta giovanile su scala europea, che permette ai nostri pochi giovani nati in Italia (sempre più diplomati e laureati) di allargare le proprie vedute ben oltre i confini per andare in Europa e nel mondo, anche perché altrove, essendoci lo stesso declino demografico dell’Italia (e quindi penuria di giovani), le imprese li cercano (specie se italiani). E in Europa la Domanda di lavoro è molto più forte che da noi e i salari sono più alti (anche se i maggiori affitti e il maggior costo della vita calmiera per ora la “grande” fuga).
Il problema per i nostri giovani non è allora avere le garanzie dell’articolo 18 (tutela al reintegro al lavoro in caso di licenziamento ingiusto che in Europa non esiste in alcun paese, ma solo indennità come da noi), ma l’essere aiutati a trovare un primo lavoro ben pagato, a poter scegliere quale sia il primo lavoro migliore in cui sperimentarsi. Ecco perché i nostri giovani non hanno nulla in contrario a mettersi alla prova, anche con contratti a tempo determinato per un anno o due, come avviene normalmente in tutta Europa. Anzi spesso cercano più un lavoro a tempo determinato (alle prime esperienze) in quanto, a differenza di noi vecchi, amano “navigare” nei primi anni nel lavoro alla ricerca di quello che più capiscono adatto alle proprie passioni, in quanto (e per fortuna) il salario non è più l’unico elemento che determina la scelta di quel lavoro, anche perché c’è meno pressione famigliare (figli e coniuge spesso mancano).
Ci è capitato spesso nell’esperienza PIl dell’Università di Ferrara (estesasi anche a Bologna, Verona, Roma, Campobasso) che laureandi o neo laureati assunti per un anno a tempo determinato, preferissero scegliere un lavoro meno pagato ma a loro avviso più interessante o perché svolto in un’azienda più innovativa o che dava più prospettive di carriera o perché più rispondente alla propria passione. Ciò che li attrae è trovare l’azienda più capace di valorizzare al meglio i loro talenti, spesso anche al di là della specifica preparazione universitaria. Ecco perché conta per esempio il tipo di diploma che alcune aziende guardano con interesse al pari del tipo di laurea, gli hobby del giovane, le sue passioni, la conoscenza di una lingua e non solo il voto di laurea o gli specifici studi.
Siamo entrati da tempo non solo in Italia ma anche in Europa (per il forte calo demografico e l’incapacità di serie politiche di immigrazione legale) in economie caratterizzate dall’eccesso di Domanda rispetto all’Offerta di manodopera. Ecco perché potrebbero cambiare le caratteristiche della protezione deilavoratori. Una volta era il reintegro nel posto di lavoro per licenziamento ingiusto e la cassa integrazione
nei periodi di crisi, ma in economie dove mancano i giovani e manodopera, la protezione si sposta nel garantire un altro lavoro e sussidi di disoccupazione nella fase di transizione (lo stesso lavoratore licenziato ingiustamente non vuole più avere a che fare con un farabutto), salari più alti (ecco perché il salario minimo è un obiettivo giusto e c’è in 23 paesi europei su 27, ed era previsto nella legge-delega del Jobs Act del
2016), e per i giovani un vero accompagnamento per trovare presto un primo lavoro retribuito e, ancor più, poter scegliere tra diversi primi lavori. Ciò garantisce a tutti (o quasi) quell’inserimento rapido nel lavoro, che è il più potente antidoto a non diventare un NEET (né lavora, né studia, il 18% in Italia tra i giovani finoa 34 anni).
Se entri rapidamente nel primo lavoro, hai potenziato non solo il tuo curriculum per trovare un altro lavoro, ma impari a “navigare” nell’ampio mercato del lavoro e di certo non diventerai più un NEET (con risparmi di denaro pubblico per quei servizi rivolti oggi ai NEET che è quasi impossibile collocare al lavoro dopo anni che ne sono privi). Ma questo significa che tutti i nostri servizi al lavoro devono cambiare ed essere potenziati, in termini di informazione, orientamento e formazione efficace, affinchè i servizi di ricollocazione e di primo inserimento
al lavoro e di libertà di scelta possano essere diritti reali e non sulla carta. Questa è la vera frontiera dell’emancipazione del lavoro e CDS e Università di Ferrara hanno offerto all’intero paese una sperimentazione di 20 anni (1982-2001) che lo ha dimostrato, aiutando le stesse università a dotarsi di un servizio (terza missione che integra Ricerca e Didattica) che va ben oltre i modesti “Career day” e che offriva
al 10% dei neo laureati un percorso di inserimento al primo lavoro nell’ultimo anno degli studi.
Sarebbe anche necessario unificare i 3 ispettorati sul lavoro oggi divisi (Ministero, Inps, Inail), riformare i Servizi per l’Impiego e i Centri di formazione che potrebbero essere premiati in base all’occupabilità che ottengono coi loro corsi (considerando ovviamente i diversi mercati locali del lavoro). Questi aspetti, pur importanti, sono però di minore importanza rispetto al servizio universitario di accompagnamento al primo lavoro, che è anche un modo per rendere l’Università moderna. Chi l’ha fatta in passato sa che era seguito dai docenti quasi personalmente perché eravamo pochi allievi. Ora un’università di massa, se vuole bene ai suoi allievi, deve preoccuparsi anche di accompagnarli al primo lavoro, affinchè il suo percorso formativo possa arricchirsi non solo delle maggiori conoscenze desunte dagli studi accademici, ma anche dagliapprendimenti che vengono dal lavoro e dalla vita. E ciò significa personale ad hoc e dedicato oggi inesistente.