di Sandro Spinsanti. Pubblicato nel blog dell'autore il 16 giugno 2025.
Dunque, stando alle recenti notizie di stampa, pare che nei piani alti della politica si stia lavorando di buzzo buono per trovare una regolamentazione giuridica per il fine vita, come già fortemente sollecitato dalla Consulta. Tra le proposte relative alla questione spinosissima del suicidio medicalmente assistito è trapelata quella di costituire “un organismo valido per tutto il territorio nazionale”, i cui componenti saranno scelti attraverso un decreto del presidente del Consiglio, che avrebbe il compito di decidere chi ha il diritto di accedere a questa modalità di porre fine alla vita e chi invece no.
Sorge qualche interrogativo, a cominciare dal nome. Come chiameremo questo organismo? Comitato? Beh, qui incappiamo in qualche resistenza. Non è che i comitati nell’opinione pubblica godano di ottima reputazione. C’è chi sostiene che il cammello sia un cavallo disegnato da un comitato… E soprattutto pesa il macigno dell’inefficienza, espresso dal detto: “Se vuoi che una cosa sia fatta, falla; se vuoi che non sia fatta, affidala a un comitato”. E poi: da quando la bioetica è entrata nella cultura sanitaria del nostro tempo, si è sentita la necessità di creare un comitato apposito: Il Comitato nazionale per la bioetica. Come si rapporterebbe la nuova struttura con l’esistente comitato? Un doppione? Una sua agenzia operativa?
Vogliamo immaginare che i politici impegnati a risolvere la quadra del fine vita siano a conoscenza dell’esistenza di due tipi di comitati in ambito sanitario: quelli destinati a vagliare la ricerca medica e la sperimentazione e quelli rivolti a sovrintendere alla pratica clinica. I primi sono stati istituiti per legge e sono distribuiti per tutto il territorio nazionale; gli altri sono in pratica facoltativi e solo poche regioni li hanno istituiti. Sia agli uni come agli altri ci si riferisce chiamandoli abitualmente “comitati etici”. La dizione inglese “Ethics committee” ha subito in italiano una piccola torsione: l’etica da sostantivo è diventato aggettivo. Il comitato ne ha guadagnato, perché si è così attribuito la gestione monopolistica dell’etica.
Basterebbe chiamarlo “per l’etica”: dovrebbe giustificare la sua qualifica e la sua competenza. Ma se si qualifica come “etico”, per definizione, l’etica la gestisce in proprio. Definisce i comportamenti etici e quelli che non lo sono: “avvinghia e manda”, come il Caronte dantesco. Lo sanno bene i ricercatori che, sottoponendo i loro progetti al comitato apposito, se li vedono approvati o respinti sulla base del criterio dell’etica, che qualifica il comitato.
Il problema riguardo al fine vita è che la Consulta, volendo coinvolgere i comitati nelle decisioni che riguardano la presenza delle quattro ben descritte condizioni che esonererebbero l’aiuto al suicidio dalla qualifica di reato, ha indicato come obbligatorio il passaggio attraverso “il comitato etico localmente pertinente”. Ciò vuol dire, in concreto, che non essendo per lo più disponibili i comitati per la pratica clinica, il riferimento va ai comitati per la ricerca. Non resta che domandarsi, con sgomento, che competenza abbiano per affrontare le complesse questioni che stanno dietro alla domanda: “Fatemi morire”. È come se un esperto di alimentazione, competente nell’individuare i cibi tossici, fosse chiamato a fare ricette di “haute cuisine” (Sì, la metafora può essere irritante, ma rende l’idea del salto di qualità!).
Non è tutto. Perché questo ventilato organismo che dovrebbe sentenziare quali domande sono accettabili e quali no, comporterebbe due clamorose svalutazioni. La prima è quella della persona che chiede di chiudere i conti con la vita, perché le è diventata intollerabile. Far dipendere l’accettazione da una struttura autoritaria – organismo, comitato, commissione, o come la vogliamo chiamare – giustifica un paternalismo opposto a tutte le proposte di autodeterminazione che vengono dalla bioetica. E' come se a ogni persona si continuasse a chiedere di fare “il bravo bambino”, in attesa dell’approvazione dai “grandi”. Perché questi sanno qual è il suo bene e sono impegnati a proteggerlo da ogni decisione sbagliata.
Non meno svalutante sarebbe la procedura nei confronti dei medici e altro personale curante. Non dimentichiamo che stiamo parlando di suicidio “medicalmente” assistito. Ancor meglio sarebbe chiamarlo “aiuto medico a morire”, evitando la parola suicidio, su cui grava una connotazione linguistica e sociale svalutante. Ebbene, anche i medici sarebbero infantilizzati dalle sentenze del fantomatico organismo chiamato a decidere chi può ricevere l’aiuto e chi no. Il discernimento della domanda di concludere la propria vita è un’opera delicata e difficile. Richiede ascolto e non poca abilità nel districare i fili della cura che si sono evidentemente aggrovigliati. Decodificare quella domanda è forse l’atto più alto della cura.
È il caso di tornare all’etimologia positiva della parola comitato, che deriva dal latino “comitari”, cioè far strada insieme, accompagnare. Un buon curante è un professionista dell’accompagnamento. Ciò richiede impegno e vicinanza, domanda coinvolgimento. Non a caso in ambito anglofono si usano due espressioni per qualificare l’etica: “armchair ethics” e “bedside ethics”. La prima è l’etica accademica, dei professori di filosofia, la seconda quella che prende forma al letto del malato. Come potrebbe il ventilato organismo a valenza nazionale, a distanza siderale da ciò che vive il malato, sostituire la delicata funzione che ci aspettiamo dal clinico, competente non solo in scienza medica ma anche nella comunicazione?
Sono interrogativi che ci permettiamo di rivolgere ai politici che stanno deliberando quale strada seguire per permettere ai cittadini di modellare sui propri valori non solo la vita intera, compreso il morire. Nascono soprattutto da quei professionisti della cura che sono più coinvolti nella palliazione. Questa è un’opportunità offerta – di diritto – a tutti i cittadini malati: un’opportunità che purtroppo è lungi dall’essere disponibile per tutti coloro che ne hanno bisogno. I professionisti della palliazione inorridiscono quando sentono ventilare che la palliazione obbligatoria sarebbe l’alternativa alla richiesta dell’aiuto medico a morire. Si profila lo spettro dell’”accanimento palliativo”, con una completa distorsione del concetto stesso di cure palliative e della loro pratica.
Una politica più rispettosa delle grandi competenze professionali nella gestione del percorso di cura, che pur esistono nel nostro mondo sanitario, godrebbe anche di maggiore considerazione presso i cittadini.
Dunque, stando alle recenti notizie di stampa, pare che nei piani alti della politica si stia lavorando di buzzo buono per trovare una regolamentazione giuridica per il fine vita, come già fortemente sollecitato dalla Consulta. Tra le proposte relative alla questione spinosissima del suicidio medicalmente assistito è trapelata quella di costituire “un organismo valido per tutto il territorio nazionale”, i cui componenti saranno scelti attraverso un decreto del presidente del Consiglio, che avrebbe il compito di decidere chi ha il diritto di accedere a questa modalità di porre fine alla vita e chi invece no.
Sorge qualche interrogativo, a cominciare dal nome. Come chiameremo questo organismo? Comitato? Beh, qui incappiamo in qualche resistenza. Non è che i comitati nell’opinione pubblica godano di ottima reputazione. C’è chi sostiene che il cammello sia un cavallo disegnato da un comitato… E soprattutto pesa il macigno dell’inefficienza, espresso dal detto: “Se vuoi che una cosa sia fatta, falla; se vuoi che non sia fatta, affidala a un comitato”. E poi: da quando la bioetica è entrata nella cultura sanitaria del nostro tempo, si è sentita la necessità di creare un comitato apposito: Il Comitato nazionale per la bioetica. Come si rapporterebbe la nuova struttura con l’esistente comitato? Un doppione? Una sua agenzia operativa?
Vogliamo immaginare che i politici impegnati a risolvere la quadra del fine vita siano a conoscenza dell’esistenza di due tipi di comitati in ambito sanitario: quelli destinati a vagliare la ricerca medica e la sperimentazione e quelli rivolti a sovrintendere alla pratica clinica. I primi sono stati istituiti per legge e sono distribuiti per tutto il territorio nazionale; gli altri sono in pratica facoltativi e solo poche regioni li hanno istituiti. Sia agli uni come agli altri ci si riferisce chiamandoli abitualmente “comitati etici”. La dizione inglese “Ethics committee” ha subito in italiano una piccola torsione: l’etica da sostantivo è diventato aggettivo. Il comitato ne ha guadagnato, perché si è così attribuito la gestione monopolistica dell’etica. Basterebbe chiamarlo “per l’etica”: dovrebbe giustificare la sua qualifica e la sua competenza. Ma se si qualifica come “etico”, per definizione, l’etica la gestisce in proprio. Definisce i comportamenti etici e quelli che non lo sono: “avvinghia e manda”, come il Caronte dantesco. Lo sanno bene i ricercatori che, sottoponendo i loro progetti al comitato apposito, se li vedono approvati o respinti sulla base del criterio dell’etica, che qualifica il comitato.
Il problema riguardo al fine vita è che la Consulta, volendo coinvolgere i comitati nelle decisioni che riguardano la presenza delle quattro ben descritte condizioni che esonererebbero l’aiuto al suicidio dalla qualifica di reato, ha indicato come obbligatorio il passaggio attraverso “il comitato etico localmente pertinente”. Ciò vuol dire, in concreto, che non essendo per lo più disponibili i comitati per la pratica clinica, il riferimento va ai comitati per la ricerca. Non resta che domandarsi, con sgomento, che competenza abbiano per affrontare le complesse questioni che stanno dietro alla domanda: “Fatemi morire”. È come se un esperto di alimentazione, competente nell’individuare i cibi tossici, fosse chiamato a fare ricette di “haute cuisine” (Sì, la metafora può essere irritante, ma rende l’idea del salto di qualità!).
Non è tutto. Perché questo ventilato organismo che dovrebbe sentenziare quali domande sono accettabili e quali no, comporterebbe due clamorose svalutazioni. La prima è quella della persona che chiede di chiudere i conti con la vita, perché le è diventata intollerabile. Far dipendere l’accettazione da una struttura autoritaria – organismo, comitato, commissione, o come la vogliamo chiamare – giustifica un paternalismo opposto a tutte le proposte di autodeterminazione che vengono dalla bioetica. E come se a ogni persona si continuasse a chiedere di fare “il bravo bambino”, in attesa dell’approvazione dai “grandi”. Perché questi sanno qual è il suo bene e sono impegnati a proteggerlo da ogni decisione sbagliata.
Non meno svalutante sarebbe la procedura nei confronti dei medici e altro personale curante. Non dimentichiamo che stiamo parlando di suicidio “medicalmente” assistito. Ancor meglio sarebbe chiamarlo “aiuto medico a morire”, evitando la parola suicidio, su cui grava una connotazione linguistica e sociale svalutante. Ebbene, anche i medici sarebbero infantilizzati dalle sentenze del fantomatico organismo chiamato a decidere chi può ricevere l’aiuto e chi no. Il discernimento della domanda di concludere la propria vita è un’opera delicata e difficile. Richiede ascolto e non poca abilità nel districare i fili della cura che si sono evidentemente aggrovigliati. Decodificare quella domanda è forse l’atto più alto della cura.
È il caso di tornare all’etimologia positiva della parola comitato, che deriva dal latino “comitari”, cioè far strada insieme, accompagnare. Un buon curante è un professionista dell’accompagnamento. Ciò richiede impegno e vicinanza, domanda coinvolgimento. Non a caso in ambito anglofono si usano due espressioni per qualificare l’etica: “armchair ethics” e “bedside ethics”. La prima è l’etica accademica, dei professori di filosofia, la seconda quella che prende forma al letto del malato. Come potrebbe il ventilato organismo a valenza nazionale, a distanza siderale da ciò che vive il malato, sostituire la delicata funzione che ci aspettiamo dal clinico, competente non solo in scienza medica ma anche nella comunicazione?
Sono interrogativi che ci permettiamo di rivolgere ai politici che stanno deliberando quale strada seguire per permettere ai cittadini di modellare sui propri valori non solo la vita intera, compreso il morire. Nascono soprattutto da quei professionisti della cura che sono più coinvolti nella palliazione. Questa è un’opportunità offerta – di diritto – a tutti i cittadini malati: un’opportunità che purtroppo è lungi dall’essere disponibile per tutti coloro che ne hanno bisogno. I professionisti della palliazione inorridiscono quando sentono ventilare che la palliazione obbligatoria sarebbe l’alternativa alla richiesta dell’aiuto medico a morire. Si profila lo spettro dell’”accanimento palliativo”, con una completa distorsione del concetto stesso di cure palliative e della loro pratica.
Una politica più rispettosa delle grandi competenze professionali nella gestione del percorso di cura, che pur esistono nel nostro mondo sanitario, godrebbe anche di maggiore considerazione presso i cittadini.
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per approfondire leggere Fine vita: questione etica e giuridica. Intervista al professor Savarino di Emiliano Loria. Pubblicato in Aging project Unipo del 9 agosto 2023.