di Luigi Viviani. Sguardi al futuro politico.
Il debito pubblico italiano che continua a crescere rappresenta, nel suo valore e nella sua struttura, una rappresentazione fedele dei problemi del Paese. Durante il governo Meloni tale debito è cresciuto di oltre 200 miliardi raggiungendo la rilevante cifra di 3000 miliardi. Si tratta di un debito per circa due terzi di proprietà di soggetti italiani (Bankitalia in testa) e per un terzo da soggetti stranieri. Questo è un elemento che rende il debito pubblico relativamente più buono e che consente una sua gestione meno emergenziale, anche se appaiono del tutto fantasiose e irresponsabili alcune dichiarazioni di esponenti di Fdi che equiparano la proprietà interna al non debito.
Il governatore di Bankitalia Panetta nelle sue Considerazioni di quest’anno, improntate all’incoraggiamento dell’azione del governo, ha chiaramente affermato: “Gli incrementi finora conseguiti sono incoraggianti, ma non bastano a sostenere lo sviluppo del Paese. Il percorso di risanamento dei conti pubblici è però solo all’inizio. Il debito resta elevato e, nei prossimi anni, la spesa sarà sottoposta a pressioni legate all’invecchiamento della popolazione, alle transizioni verde e digitale, al rafforzamento della capacità di difesa”. - La crescita troppo lenta, dovuta essenzialmente alla stagnazione della produttività, ha determinato uno sviluppo da zero virgola, che quest’anno, nei fatti, risulta dimezzato rispetto alle previsioni, per cui le retribuzioni reali dei lavoratori sono cresciute meno che nei principali Paesi europei.
Un risultato deludente pur in presenza del PNRR europeo che, date le risorse a disposizione, avrebbe dovuto realizzare un programma di riforma strutturale della nostra economia, di cui l’Italia ha estremo bisogno. Nella realtà, per evidenti limiti di visione strategica dei nostri governanti, si è determinata una distribuzione più o meno occasionale delle risorse, con crescenti ritardi nella gestione dei progetti definiti. A tale scopo, l’Italia ha ricevuto dall’Ue, fino ad oggi, 122 miliardi e ne ha utilizzati soltanto circa la metà, per cui è stata richiesta una revisione del piano, dal cui esito dipenderà il pagamento delle prossime rate. Resta comunque la delusione di una rilevante occasione perduta che difficilmente potrà ripetersi in futuro.
Nel momento in cui l’Italia deve ripensare le sue modalità di sviluppo tramite un utilizzo più efficace delle risorse europee, nasce una nuova, impellente necessità di incrementare le risorse da impiegare nella difesa. Da un lato, la crescente aggressività della Russia di Putin, testimoniata dalla volontà di proseguire la guerra in Ucraina per ulteriori conquiste, unita alla guerra di Israele contro Hamas a Gaza, e l’apertura del nuovo fronte contro l’Iran relativo al pericoloso riarmo nucleare. Se a ciò si aggiunge la guerra dei dazi e i suoi effetti sul debito pubblico, e il disimpegno dell’America di Trump da ogni responsabilità circa le sorti dell’Occidente, che sta obbligando l’Europa e la Nato ad aumentare le spese militari per far fronte alla nuova realtà geopolitica che si è determinata. L’Ue e la Nato, ferma restando la priorità di realizzare la Difesa comune europea come esigenza identitaria imprescindibile dell’Unione Europea, stanno quantificando l’entità delle risorse necessarie. Per la Nato bisognerebbe arrivare, in un certo numero di anni, ad una spesa militare complessivamente pari al 5% del Pil, suddivisa nel 3,5% in armamenti e nel 1,5% in infrastrutture.
La reazione degli Stati europei della Nato è stata di relativo rallentamento sui tempi, mentre l’Italia, più esplicita, ha chiesto di raggiungere l’obiettivo almeno tra 10 anni, nel 2035. La decisione verrà assunta nel prossimo vertice Nato del 24-25 giugno dell’Aia. Non c’è dubbio che una scelta di queste dimensioni è destinata a influire pesantemente sull’equilibrio dell’attuale spesa pubblica e per l’Italia risulta più evidente l’effetto negativo che tale scelta avrà in particolare sulla futura spesa sanitaria, previdenziale e scolastica, in relazione all’invecchiamento della popolazione e all’aumento della domanda formativa. Credo che la scelta di aumentare la spesa militare, nell’attuale situazione geopolitica, condizionata anche dall’aggressività del trumpismo che sta mettendo a rischio le alleanze storiche e lo stesso ordine globale. In tale contesto l’Italia interpreta il suo rapporto atlantico con gli Usa in termini di alleato comunque fedele e subordinato, incapace di una politica estera autonoma anche quando quella americana risulta contraria all’interesse dell’Italia.
Ci aspetta perciò un futuro quando mai problematico, nel quale le maggiori spese militari, dovute soprattutto al pericolo dell’espansione delle guerre e al caos globale trumpiano, entreranno direttamente in conflitto con l’esigenza degli investimenti indispensabili per riqualificare il nostro processo di crescita, soprattutto in termini di ricerca, innovazione e produttività per colmare il ritardo che ci separa dall’Europa e dagli Stati Uniti. Con l’ulteriore difficoltà del Pnrr avviato ormai verso la conclusione. Una contraddizione che verrà evidenziata soprattutto dal valore del debito pubblico, che nel suo valore rimarrà la sintesi, dell’esito delle sfide in corso e che, rispetto al Pil, potrebbe arrivare al 138,9%. Certo, sarà possibile anche un tirare avanti, senza scelte impegnative, cercando di coprire le mancate scelte e i ritardi con la propaganda ideologica e dozzinale di un governo falsamente stabile. Ma questa strada è già stata percorsa da troppo tempo, per cui la realtà sarà alla fine fin troppo chiara.