di Paolo Balduzzi. Pubblicato in la voce.info del 10 giugno 2025.
Non solo i referendum: l’8 e 9 giugno si sono tenute elezioni amministrative in vari comuni, di cui si è parlato ben poco: ed è già un’occasione persa. Dalle consultazioni referendarie non escono modifiche legislative. Ma lasciano conseguenze politiche.
I dati sul voto: il referendum
L’8 e 9 giugno si sono tenuti cinque referendum abrogativi, il secondo turno delle elezioni amministrative in tredici comuni italiani e le elezioni a turno unico in sette comuni della Sardegna. I referendum, pur non avendo raggiunto il quorum di validità necessario, o forse proprio per questo, hanno cannibalizzato tutta l’attenzione mediatica, a discapito del voto locale. Al di là delle valutazioni politiche sugli esiti, questa tornata elettorale ha evidenziato numerose occasioni perse nel paese.
Cominciamo dai numeri, nudi e crudi. Nessuno dei cinque referendum ha superato il quorum, fissato dall’articolo 75 della Costituzione nella maggioranza degli aventi diritto. Nel paese, l’astensione è stata identica per tutti i quesiti: ha votato il 30,6 per cento degli aventi diritto (circa 14,1 milioni di elettori su 46 milioni) e si è astenuto il restante 69,3 per cento. Questi dati riguardano solo il territorio italiano: considerando anche la circoscrizione “Estero”, la partecipazione scende a meno del 30 per cento (29,9 per cento): in Sudamerica ha votato il 34,6 per cento degli aventi diritto, in Europa il 19,1 per cento , in Asia, Africa, Oceania e Antartide il 18,1 per cento e in America del Nord e centrale il 16,5 per cento.
Su suolo italiano, a livello regionale, invece, la variabilità è ampia: la partecipazione è stata minima in Trentino-Alto Adige, Sicilia e Calabria (rispettivamente al 22,7, 23,1 e 23,8 per cento) e massima in Toscana, Emilia-Romagna e Piemonte (rispettivamente al 39,1, 38,1 e 35,2 per cento). Le regioni mediane sono state invece Abruzzo e Campania (29,8 e 29,8 per cento), una misura identica alla media nazionale.
Non sembra emergere una chiara correlazione tra geografia e partecipazione; mentre si può notare, pur senza metterci troppa enfasi, che le due regioni tradizionalmente più orientate a sinistra sono effettivamente quelle dove si è votato di più. Per quanto riguarda i risultati, i quattro quesiti sul lavoro hanno raccolto sul territorio nazionale una proporzione di “Sì” molto simile e pari, in media, all’88,3 per cento, che equivale a circa 12,1 milioni di elettori. Al contrario, pur prevalendo, il “Sì” ha raccolto molto meno consensi nel referendum sulla cittadinanza, il 65,5 per cento, pari a circa 9 milioni di elettori.
Le percentuali di “Sì” nella circoscrizione estero, per i quesiti sul lavoro, sono sensibilmente inferiori rispetto al dato nazionale: circa il 68,1 nel referendum sulla cittadinanza; mentre per il quesito sulla cittadinanza la percentuale di “Sì” è stata molto simile: 63,4 nel referendum sulla cittadinanza.
È anche possibile confrontare i dati medi regionali con quelli del capoluogo di regione, per avere una prima, seppur grossolana, idea di una eventuale differenza tra voto nelle città e voto nelle periferie. Limitandosi al quesito sulla cittadinanza, alla luce dei fatti quello più sorprendente, si può evidenziare come in ogni regione la percentuale di “Sì” nel capoluogo sia superiore alla percentuale di “Sì” registrata in media nell’intero territorio regionale. Differenze più elevate si registrano tra il dato medio del Trentino – Alto Adige e quello di Trento (60,1 contro 73,8 per cento rispettivamente) e tra il dato emiliano-romagnolo e quello di Bologna (64,3 contro 77,6 per cento rispettivamente); discrepanze minori, invece, si osservano in Calabria (66 contro 66,9 per cento a Catanzaro) e Liguria (65,4 contro 68,2 per cento a Genova). Alla luce di una partecipazione molto uniforme a tutti i quesiti, è quindi possibile affermare, con un certo grado di sicurezza, che molti elettori che hanno votato “Sì” ai referendum sul lavoro hanno poi manifestato un voto diverso per il quesito sulla cittadinanza.
I dati sul voto: le elezioni amministrative
L’8 e 9 giugno si votava anche per il secondo turno di elezioni municipali (il cosiddetto “ballottaggio”) in tredici comuni con popolazione superiore a 15mila abitanti. Tra i comuni capoluoghi di provincia, il risultato del turno elettorale amministrativo premia sostanzialmente l’opposizione (nella forma di centrosinistra, Movimento 5 stelle o “campo largo”), che, dopo Genova e Ravenna, conquistate al primo turno, si afferma anche Taranto e lascia al centrodestra solo Matera. In Sardegna, dove si votava a turno unico, l’opposizione vince a Nuoro. Da notare come, in moltissimi casi, la partecipazione ai ballottaggi è risultata superiore al 50 per cento, decisamente più alta di quella al referendum nei medesimi comuni.
Cinque occasioni perse
Molto rumore per nulla, quindi? Dal punto di vista legislativo, decisamente sì. Nessuna legge esce modificata dal referendum, nessuna normativa è da rivedere, nessun regolamento o contratto va riscritto. Dal punto di vista politico, tuttavia, ci si può aspettare qualche conseguenza. In particolare, bisognerà vedere come partiti ed elettori valuteranno quelle che, di fatto, sono state ben cinque occasioni perse.
La prima occasione persa è stata quella di accorgersi troppo tardi del problema quorum. A ogni tornata referendaria, i promotori si scontrano con il vantaggio strategico che detiene chi vuole difendere lo status quo: vale a dire, usare l’astensione. Tuttavia, la normativa di applicazione dell’art. 75 è la stessa ormai da oltre cinquant’anni (che diventano quasi ottanta se si guarda direttamente alla Costituzione). E che la partecipazione elettorale sia in calo, alle elezioni e ancora di più ai referendum, è ormai noto da tempo. Per esempio, negli ultimi trent’anni, il quorum è stato superato solo una volta, nel 2011. Accorgersi del problema e denunciarlo con decisione solo alla vigilia del voto non è certo una colpa per la cosiddetta “società civile”. Ma quando a farlo sono partiti rappresentati in Parlamento, viene da chiedersi come mai non siano stati fatti tentativi per cambiare la disposizione. Lamentarsi del quorum, ma non fare nulla per riformarlo quando se ne ha la possibilità, è senz’altro un’occasione persa.
La seconda occasione persa è quella che riguarda le materie oggetto di referendum, e in particolare la normativa sulla cittadinanza. Naturalmente, che siano questioni da rivedere dipende dalle opinioni e le ragioni per il “Sì” e per il “No” sono state discusse e approfondite a sufficienza su lavoce,info: ogni lettore si sarà fatto la sua idea. Tuttavia, su una questione cruciale e delicata come quella della cittadinanza, difficilmente, alla luce di questi risultati, la legge verrà modificata nel medio-breve periodo.
La terza occasione persa è tutta interna all’opposizione ed è quella di essersi dimenticata delle elezioni amministrative. Il turno elettorale ha sorriso all’opposizione; tuttavia, a causa dell’enfasi posta sul referendum, sarà difficile cantare vittoria per la conquista di qualche sindaco in più.
La quarta occasione persa è quella dei nostri concittadini all’estero, che hanno disertato le urne (o, meglio, le cassette delle lettere). Certo, il loro voto andrebbe interpretato prima di giungere a conclusioni affrettate. La scarsissima partecipazione può essere sintomo anche di grande maturità elettorale: essendo questioni che riguardano il territorio nazionale, è possibile che i residenti all’estero non se ne siano voluti occupare. Ma, al contrario, all’estero potrebbero non aver votato solo perché non sono in generale interessati a farlo. Sarà solo il tempo a dire quale dei due scenari ha prevalso. In ogni caso, resta stupefacente il voto nel referendum sulla cittadinanza, che proprio all’estero ha registrato il risultato peggiore.
La quinta e ultima occasione persa è stata quella di parlare con onestà e chiarezza ai cittadini. La chiamata alle urne, per i promotori, doveva portare a garantire maggiori diritti ai lavoratori. Tuttavia, a molti è risultato difficile comprendere come fosse possibile garantire questi diritti cancellando parte di una normativa introdotta proprio dal centrosinistra.
Non solo, alla luce dei risultati, qualcuno ha comunque esultato per la grande mobilitazione (oggettivamente, 14 milioni di elettori non sono pochi) e per il messaggio lanciato al governo. Ora, delle due, l’una: o il voto doveva tutelare i diritti fondamentali dei lavoratori (e dei residenti non cittadini), e allora bisogna concludere che è stato un fallimento (ancora di più per il quinto quesito); oppure si trattava di un voto meramente politico, ma così la contesa sui diritti diventa solo strumentale. E gli elettori, in molti casi, si chiederanno se siano stati partecipi di una vera battaglia politica sui diritti o se siano stati meramente utilizzati per altri scopi. Evitando quindi con grande probabilità, la prossima volta che gli verrà chiesto, di recarsi alle urne.