di Andrea Gandini. Economista, analista del futuro sostenibile.
Come avevo previsto in un post precedente è arrivato lo scontro tra l’uomo più potente al mondo (Trump) e il più ricco (Musk). Era prevedibile che un uomo di potere (Trump) che non vuole perdere consensi tra chi è stato colpito dalla globalizzazione, non volendo tassare, deve fare altro debito e così confligge con il tecno-liberal Musk che vuole tagliare il minuscolo stato sociale americano per ridurre il debito pubblico. Musk poi è contro i dazi e le restrizioni sugli immigrati (laureati e professional) che limitano i profitti delle multinazionali. Lo avevano previsto anche i fan del MAGA (Steve Bannon, Laura Loomer, etc.) che stanno dalla parte dei forgotten man (bianchi colpiti dalla globalizzazione) e non amano i liberal big tech.
Musk serviva in campagna elettorale, per i suoi soldi, i satelliti Starlink e Space X, al momento gli unici che possono supportare i droni dell’Ucraina (e non solo) o portare gli astronauti nella stazione spaziale. Ma Trump non intende favorire le auto elettriche (a cui ha tolto 7.500 dollari di incentivi), né tagliare il bilancio più del dovuto che toglie consensi, nè togliere spazio ai concorrenti di Musk come Altman (Intelligenza Artificiale), tantomeno appaltargli la Nasa o averlo come co-presidente. Speriamo che Musk non diventi ora un paladino di quei DEM Usa che ha sostenuto in passato.
Bannon ha proposto addirittura di nazionalizzare Space X usando il Defense Production Act, cosa che non si farà nella liberista America. La Cina intanto gode vedendo a cosa può portare l’economia di mercato dando enormi poteri e monopoli a singoli imprenditori privati, anche se i due litiganti potrebbero tornare a collaborare.
La Cina ha avuto uno sviluppo straordinario da quando gli Stati Uniti hanno concesso di entrare nel WTO (World Trade Organization, Commercio Mondiale) nel 2001 come se fosse un’”economia di mercato”, che in realtà non è mai stata. Alla Russia l’entrata nel WTO fu concessa solo nel 2012. Gli Stati Uniti, dopo il crollo del comunismo (1991), si erano convinti di essere diventati gli unici dominatori del mondo. Abolirono la distinzione tra banche d’affari e commerciali nel 1999 (introdotta da Roosevelt nel 1933 per favorire il New Deal), avviando un nuovo ciclo di accumulazione capitalistica basata sulla finanziarizzazione dell’economia. Ai profitti delle manifatture si aggiungevano quelli delle speculazioni finanziarie e si dava a banchieri e fondi finanziari un maggior potere di condizionare gli imprenditori.
La globalizzazione era funzionale a questo mondo “piatto”, per cui la Cina fu inserita con le sue fabbriche nel sistema capitalistico mondiale. I suoi bassi costi del lavoro accrescevano i profitti delle multinazionali che lì delocalizzavano sempre più le loro produzioni, facendo diventare la Cina la “fabbrica del mondo”. Da copiatori (come i giapponesi) e follower delle tecnologie occidentali, i cinesi si sono evoluti in 25 anni in leader. Gli esperti sono divisi su quanto sia estesa oggi la loro leadership.
Per Sylos Labini sono leader su 57 delle principali 63 tecnologie avanzate (solo 6 nel 2001), per altri solo in un terzo. Tutti però concordano che ogni anno avanzano. Vent’anni fa la Cina produceva solo il 4% delle automobili, oggi, col 32%, è il primo produttore al mondo e le auto elettriche costano il 30% in meno delle altre (da cui i dazi europei per le auto elettriche cinesi dal 27% al 45%, secondo quanto hanno collaborato con la UE nell’indagine sul dumping. Per Tesla di Musk sono 7,8%, mentre per SAIC, casa madre di MG, del 35%).
Anche negli altri settori manifatturieri la Cina produce ormai un terzo della produzione mondiale. Il prof Zhiyi He (Università di Pechino) ha presentato a Trento uno studio su tutte le 48.613 imprese quotate in borsa in 117 Stati. Le imprese leader di settore sono ancora prevalenti negli Stati Uniti (290) rispetto alle 94 cinesi, 90 europee e 46 giapponesi. La Cina è forte nella manifattura, meno nei servizi, dove la leadership è in Usa ed Europa.
Le imprese quotate in borsa non sono tutte e sappiamo che in Cina lo Stato svolge un controllo totale sulle imprese leader. Ne sa qualcosa Jack Ma, Ceo di Alibaba (l’Amazon cinese) che voleva quotare in borsa la sua azienda (rischiando di perderne il controllo), ed è stato “invitato” dal Governo a lasciare la direzione. Il modo di produzione cinese è per molti aspetti capitalistico: il tasso di profitto è superiore a quello USA e UE, modesto o nullo è il ruolo dei sindacati e, non a caso, i salari sono (in proporzione al valore prodotto) inferiori a quelli occidentali e quindi si può dire che la manodopera cinese è più sfruttata di quella occidentale. Anche i dati macroeconomici lo confermano essendo il Pil cinese il 18% di quello mondiale, ma solo il 15% i suoi consumi.
La grande differenza con l’Occidente riguarda il ruolo dello Stato in economia, il quale pur lasciando ampi poteri alle imprese, ne controlla il capitale quando diventano strategiche e dirige la crescita in base ad una pianificazione quinquennale che prevede forti incentivi.
La Cina diventò comunista nel 1949. Tentò varie strade, ma, come l’URSS, tutte fallirono sotto una montagna di inefficienza, morti e crimini. Nel 1978 avvenne la svolta riformista di Den Xiaoping. Si accolse l’idea di una economia di mercato temperata dal socialismo. Questo mix tra “Marx, Smith e Confucio” è una forma inedita di “capitalismo socialista” basata sulle tradizioni di una Cina confuciana e imperiale che lasciava liberi di arricchirsi i piccoli cinesi, seppur sottoposti al maggior rango dei contadini (custodi della terra) e dei mandarini (custodi della sapienza) come Confucio e Mencio che hanno prodotto capolavori letterari.
Parrebbe che sul piano strettamente economico il recupero dell’abilità millenaria nel programmare l’uso delle risorse e di contenere gli “animal spirit” degli imprenditori, tagliando le unghie a chi troppo vuole, sarebbe alla base del successo cinese. I capitalismi di mercato puri e finanziari dell’Occidente sembrano invece in declino in quanto, spinti dall’eccesso dell’avidità. Non sono più in grado di allocare le risorse in base ai bisogni reali dei cittadini e di contrastare i pericoli più gravi che oggi risiedono nel cambiamento climatico e nel voler continuare a dominare il mondo con le guerre.
Paradossalmente fu proprio Adam Smith che notò come in Cina un capitalismo regolato dalla “mano visibile” dello Stato potesse essere migliore di quello europeo “innaturale”. E’ infatti una vulgata post-smithiana che lo Stato non svolgesse un ruolo importante nella sua filosofia economica, in quanto produttore dei beni pubblici fondamentali e garanzia di una corretta concorrenza.
I successi del modello cinese sono quelli di aver fatto uscire dalla povertà in 30 anni 850 milioni di suoi cittadini e creato una classe media di 400 milioni che hanno lo stesso potere d’acquisto degli europei. La disoccupazione dei giovani è 15% (2024) e non mancano i conflitti sui posti di lavoro, pare numerosi e in aumento (la censura non consente di avere dati precisi). Il partito comunista cinese ha sempre dato importanza alla crescita e “stabilità”, perché sa che prima o poi la popolazione potrebbe ammutinarsi.
Sul piano dei diritti la bilancia è negativa. Le minoranze (Tibet e Uiguri) sono perseguitate e statistiche non esistono, ma Amnesty stima oltre mille morti all’anno per la pena di morte, le critiche sono di fatto bandite e alcune città hanno adottato un sistema orwelliano “a punti” per controllare i cittadini e sappiamo che chi usciva di casa durante i lockdown veniva ammazzato. Del resto la soppressione delle femmine (politica demenziale del figlio unico) sarà il più grande problema del futuro: la Cina perderà 655 milioni di abitanti entro il 2100 (stime ONU).
Personalmente non mi piace né il modello cinese, né quello americano e per questo ritengo essenziale l’affermarsi di un modello europeo umanistico, che non è però quello attuale, la cui deriva bellicista rimanda all’antica Roma, imperiale e predatoria che così tanto piace agli americani, all’Europa del colonialismo, agli Stati Uniti gendarme del mondo fino a Trump.
La Cina si è invece sempre caratterizzata per un sostrato filosofico e culturale avverso alla guerra, nonostante sia del mandarino Sun Tzu, il più antico manuale strategico (VI secolo a.C.) sull’Arte della guerra. Per questo non credo che la Cina invaderà Taiwan. Il suo intento è avere un Governo pro-Cina, secondo la logica della geopolitica e della sicurezza ai propri confini che è anche la causa della guerra tra Russia e Ucraina.
La leadership militare mondiale è invece per ora saldamente in mano agli Stati Uniti, ma la recente guerra in Ucraina, gettando la Russia nelle braccia della Cina (che sostiene la Russia in modo indiretto con l’acquisto di materie prime e aumento dell’interscambio commerciale), rafforza l’idea che questa alleanza militare strategica potrebbe portare, in un futuro non lontano, ad un cambiamento di leadership nel mondo a suo favore (e della Russia). Per ora i commerci possono prosperare sulla base di un mondo meno americano e più multilaterale, ma poiché è difficile pensare ad un multilateralismo anche militare, ciò spiega l’attuale radicale cambiamento di strategia di Trump che cerca di evitare il declino americano.
Dietro i dazi c’è l’idea di re-industrializzare l’America, renderla di nuovo “grande” e vincente in caso di una guerra convenzionale. E di evitare quella disgregazione economico-sociale che è in corso. Gli Stati Uniti di Trump (ma anche di Biden) hanno in comune con la Cina gli aiuti alle proprie principali imprese leader con formidabili sussidi di Stato e attenuate politiche anti trust, mentre il partito comunista cinese adotta una politica centralizzata individuando i settori strategici da rafforzare con piani quinquennali e garantendo campioni cinesi non scalabili dall’estero.
Le imprese cinesi possono avere infatti azionisti stranieri ma di minoranza che non possono acquistare la maggioranza delle azioni. In tal senso la Cina non è un capitalismo ad ”economia di mercato” (come avrebbe dovuto essere partecipando al WTO). Alcuni lo chiamano capitalismo nazionalista (sussidi ma non sindacati) che può permettersi bassi salari e regimi di sfruttamento come l’hukou che toglie tutti i diritti (pensione, sanità,…) ai 260 milioni di contadini che, inurbandosi per lavorare, cambiano residenza. Una forza lavoro illegale e sottopagata nonostante la cittadinanza cinese. Il capitalismo europeo usa invece gli immigrati (senza cittadinanza). In tal senso l’antica tradizione del valore dei contadini è stata trasferita dagli umani alle terre rare.
E’ questo capitalismo nazionalista o statalista cinese che guida il mercato, là dove in Europa e USA è il mercato a guidare sempre più. Keynes così vive oggi paradossalmente più in Cina che in Occidente là dove dice di regolare l’immensa forza e dinamismo dell’intrapresa individuale a scopi di benessere collettivo. Ciò implica che tutto il capitale “strategico” rimanga nelle mani dello Stato cinese: Materie prime e Terre rare, Grandi Imprese, Banche-Finanza, Intelligenza Artificiale. Non è la logora politica sovietica o maoista autodistruttasi, ma una pianificazione statale altamente sofisticata che indirizza le scelte strategiche delle imprese pur permettendo la competizione tra pubblico e privato.
La Cina si avvantaggia anche della sua attuale demografia: i laureati Stem sono 3milioni, rispetto ai 400mila degli Stati Uniti e agli 800mila della UE. Usufruisce di minori costi delle materie prime e terre rare (che possiede) e di energia a basso costo. L’Europa, con la rottura con la Russia, la paga il triplo (5-6 volte l’Italia). Nella ceramica (energivora) l’energia costa più del lavoro e le regole stringenti UE per transitare dal gas alle energie rinnovabili non impediscono l’arrivo di cemento e altro dalla Cina e Turchia, fatto col carbone.
E’ la pianificazione quinquennale cinese che ha sviluppato l’innovazione dell’auto elettrica, partendo da un bisogno sociale di enorme portata: l’inquinamento delle città cinesi dove l’aria era diventata irrespirabile. Negli Stati Uniti Musk (con Tesla) è invece partito da un’idea business: fare i soldi.
Oggi le città cinesi vedono il cielo blu. L’auto è stata concepita inizialmente come piccola ed adatta alla città, per cinesi con pochi soldi. La logica del capitalismo europeo era pervasa solo dai profitti con un’idea miope di auto sempre più grandi e costose. Qui si vede la differenza tra un capitalismo nazionalistico cinese (autoritario) che risente di una cultura confuciana attenta ai bisogni collettivi, rispetto ad un capitalismo occidentale ormai indifferente ai veri bisogni. Uno smacco per la cosiddetta “democrazia” europea, attenta più alle forme (elezioni, diritti formali) che alla sostanza (bisogni reali). E’ difficile capire le autocrazie se non si attuano i diritti reali.
L’idea infatti che si è andata sviluppando in Europa è stata quella di un’auto sempre più grande (nonostante fosse usata soprattutto in città con strade medioevali), potente nel motore che seguiva l’idea (sbagliata) di clienti sempre più ricchi, mentre in realtà larga parte della popolazione si impoveriva. L’ultimo rapporto Istat 2025 riporta che gli anni di buona salute in Italia sono scesi dal 2019 al 2024 di 3,5 anni per le donne e 2,2 per gli uomini.
La Cina non è certo un modello di sviluppo umano, ma in economia avrebbe non poco da insegnare anche alla liberista Europa, che potrebbe puntare di più su investimenti che rispondono a bisogni reali dei propri cittadini (sanità, scuola, alloggi popolari, infrastrutture, intelligenza artificiale, energie rinnovabili, ambiente, manutenzione del territorio,…) e sussidiare la ricerca nelle imprese. Ma ci vuole un’altra Europa che non insegua sogni imperiali di un passato che non tornerà e che rischiano di trasformarsi in spettri.