di Luigi Viviani. Sguardi al futuro politico.
I 5 referendum appena votati hanno espresso una volontà dei cittadini di scarso interesse sui contenuti dei 5 quesiti, relativi al lavoro e alla cittadinanza. Avendo votato poco più del 30% degli aventi diritto, il quorum del 50% + 1 non è stato raggiunto, e quindi l’operazione referendum, nel suo complesso, ha fallito.
Come in ogni battaglia, che si conclude con un sì o un no nel voto, risultano dei vincitori e degli sconfitti, ma nel caso della politica italiana il risultato è più complesso e meno chiaro. In questo referendum non è uscito un vero e proprio vincitore, ma un rifiuto del popolo italiano ad approvare i quesiti proposti mentre, a rigor di logica, gli sconfitti dovrebbero essere il proponente (Cgil)) e i suoi alleati (Pd. M5S, Avs, +Europa) sia pure con differenziazioni di non poco conto, specie nel Pd e nel M5S.
In realtà invece, di fronte ai risultati, le reazioni e le valutazioni di questi ultimi sono state solo formalmente rispettose del risultato, nel senso che, a quorum non raggiunto, si è riconosciuto il mancato traguardo conquistato, ma solo come elemento iniziale, perché, nel complesso, tutti hanno tratto conferma e sollecitazione a proseguire sulla strada intrapresa. Il segretario Landini, riconosciuto il mancato traguardo del quorum, ha constatato che tuttavia oltre 14 milioni di italiani sono andati a votare per sostenere la sicurezza e contro la precarietà, i licenziamenti illegittimi, i contratti a termine nel lavoro e a facilitare il diritto di cittadinanza.
Ciò che è mancato è un minimo di autocritica sul merito dei quesiti, del tutto ambigui nel testo (tranne quello sulla cittadinanza), e incerti nelle loro conseguenze in caso di abrogazione, coprendoli con principi generali. Anzi questi referendum sono, per la Cgil, soltanto l’inizio di una battaglia giusta da continuare, per cui è esclusa ogni ammissione di colpevolezza e quindi ogni ipotesi di dimissioni. Siamo di fronte a una Cgil incamminata sulla generica mobilitazione fine a sé stessa, su contenuti rivolti al passato, indifferente di fronte alle sfide future. Un sindacato che fa rimpiangere la Cgil di Buozzi, Lama e Trentin, coprotagonista delle lotte del lavoro che nel secolo scorso hanno cambiato il Paese. Ma ciò che più impressiona e rattrista è stata la reazione del Pd all’esito referendario.
Dopo aver inventato il cervellotico escamotage del superamento del numero di voti raggiunti dal governo Meloni, di fronte a un risultato negativo Schlein non è riuscita ad andare oltre a considerare il 14 milioni di voti e la manifestazione di Gaza come elementi rilevanti per proseguire l’opposizione al governo. E’ mancato ogni riferimento autocritico limitandosi a considerare il risultato referendario come un passaggio di una giusta opposizione da proseguire. Eppure, il Pd di Renzi, oggi considerato traditore dei lavoratori, era nella sostanza il medesimo Pd di oggi, con un altro segretario generale. Un Pd che fece le scelte del Jobs Act in relazione alle nuove tendenze del lavoro nelle quali la flessibilità era diventata un elemento strutturale della sua evoluzione.
Con una classe dirigente in buona parte rimasta anche oggi, con dirigenti come Picierno, Nannicini e altri che rimangono convinti della giusta necessità di quelle scelte, e intellettuali di sinistra, esperti di politiche del lavoro, come Boeri e Ichino che, a più riprese, hanno invitato a non ripetere questi errori. In tale situazione, ben altre dovevano essere le scelte e le decisioni di un partito che ambisce ad essere alternativo al governo. Dall’altra parte, la maggioranza di destra, essendo stata favorita da un referendum considerato tutto interno all’opposizione, e largamente votato all’insuccesso, avrebbe dovuto guardare con distacco e serenità questa battaglia. Invece non è riuscita a distaccarsi dalla naturale tendenza verso il conflitto segnato da un certo settarismo ideologico.
Da un lato non ha saputo interpretare adeguatamente l’essere maggioranza di governo, per cui la partecipazione al voto rimane un dovere connesso alla rappresentanza del Paese, smentito invece dalla premier e dal presidente del Senato. Dall’altro si è gettata a capofitto nella polemica dopo il voto dimostrando ancora una volta di essere culturalmente da un’altra parte rispetto alla Costituzione. Alla fine, anche questo referendum è stato interpretato da tutti come un'occasione che conferma ognuno nelle proprie posizioni, per cui la politica italiana è destinata a proseguire sul percorso di sempre. Con una destra che, dopo aver ricevuto in regalo il governo dell’Italia, può continuare tranquillamente a governare. Tutto questo politicamente è frutto di una consapevolezza maturata con l’esperienza o illusione derivante da improvvisazione irresponsabile? Da parte mia credo si capisca a sufficienza come la penso.