di David Bidussa. Pubblicato in Doppiozero il 5 giugno 2025.
La riflessione che propongono Piketty e Sandel in Uguaglianza (Feltrinelli, 2025) parte dalla constatazione che occorre riprendere a riflettere sugli obiettivi non raggiunti in termini di eguaglianza.
La premessa è che il percorso avviato con il “primo ‘89” vada ampliato. La massima è che una democrazia non è tanto una società di liberi ed eguali, bensì una società regolata in modo che gli individui che la compongono sono più liberi ed eguali che in qualsiasi altra forma di convivenza. In altre parole un’approssimazione per difetto e perciò perfettibile.
Questo aspetto è un principio che Piketty e Sandel ripetono più volte in questa loro conversazione e che individuano su tre aspetti dell’uguaglianza: il primo è economico, il secondo è politico e il terzo riguarda le relazioni sociali – la dignità, lo status e il rispetto.
La premessa, tuttavia, è prima di tutto politica. A uno sguardo del lungo ‘900 il dato che emerge è che quel processo di riduzione delle differenze e dunque di restringimento della forbice della disuguaglianza, ha avuto un’agenzia protagonista: la socialdemocrazia, più estesamente la costruzione dell’economia di welfare che ha voluto dire attenzione all’innalzamento dei livelli minimi di retribuzione, organizzazione della struttura sanitaria e degli apparati di istruzione volti alla costruzione delle competenze professionali.
Ma se oggi come sottolinea Piketty la socialdemocrazia si autorappresenta come un prodotto “finito o congelato”, è perché alle sfide aperte dall’egemonia dell’economia neoliberista, non ha saputo rispondere innovandosi. Laddove per innovazione Piketty sottolinea tre aspetti essenziali (tre vuoti della proposta economica socialdemocratica).
Nell’ordine:
- 1) l’assenza di una politica volta alla tutela e all’incremento dell’istruzione e della sanità;
- 2) l’assenza di una politica di intervento fondata sul principio della partecipazione e della contrattazione; ma soprattutto
- 3) l’assenza di una visione transnazionale dell’idea di sviluppo. Il che significa aver subito le sfide del rapporto Nord-Sud senza avere una visione globale, ma rimanendo prigioniera dello sguardo nazionalistico.
Un tema che ci riporta forse a una delle fonti sotterranee di questa lunga conversazione tra Sandel e Piketty e che sorprendentemente non sta nelle preoccupazioni di uno scienziato sociale di questo nostro tempo, ma di un intellettuale che con carattere perspicuo aveva visto lontano già molto tempo fa. Era il 1835 e lo scrittore è Alexis de Tocqueville. Che scrive così:
“Se cerco di immaginarmi il nuovo aspetto che il dispotismo potrà avere nel mondo, vedo una folla innumerevole di uomini eguali, intenti solo a procurarsi piaceri piccoli e volgari, con i quali soddisfare i propri desideri. Ognuno di essi, tenendosi da parte, è quasi estraneo al destino di tutti gli altri; i suoi figli e i suoi amici formano per lui la specie umana; quanto al rimanente dei suoi concittadini, egli è vicino ad essi, ma non li vede; li tocca ma non li sente affatto; vive in se stesso e per se stesso e, se gli resta ancora una famiglia, si può dire che non ha più patria. Al di sopra di essi si eleva un potere immenso e tutelare, che solo si incarica di assicurare i loro beni e vegliare sulla loro sorte. È assolto, particolareggiato, regolare, previdente e mite. Rassomiglierebbe all’autorità paterna se, come essa, avesse lo scopo di preparare gli uomini alla virilità, mentre cerca di fissarli irrevocabilmente nell’infanzia, ama che i cittadini si divertano, purché non pensino che a divertirsi.” [Tocqueville, La democrazia in America P.te IV, cap. VI]
Si può dire meglio?
sintesi di Alessandro Bruni
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