Indice generale
- Introduzione
- Aspetti medico-clinici
- Aspetti assistenziali domiciliari
- La gestione del malato a casa
- Storie di demenze raccontate nei film
- La demenza nei post di Madrugada
- Fonti consultate e letture consigliate
Indice specifico dell'argomento del capitolo
- Premessa
- Il lavoro del caregiver nell'ambito familiare
- Il percorso psicologico della famiglia
- Le fatiche psicologiche del caregiver familiare
- Come il caregiver deve affrontare i propri sentimenti
Premessa
L’Alzheimer’s Disease International stima che a livello globale il 75% delle persone affette da demenza non abbia ancora ricevuto una diagnosi, percentuale che potrebbe raggiungere il 90% in alcuni Paesi a basso e medio reddito. Secondo i dati dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) nel 2019 nel mondo si stimavano 55 milioni di persone affette da demenza, e si prevede che diventeranno 139 milioni nel 2050.
Secondo il ministero della Salute “attualmente in Italia il numero totale dei pazienti con demenza è stimato in oltre un milione, di cui circa 600.000 con demenza di Alzheimer.” A questi si aggiungono i 3 milioni di caregiver professionali o familiari coinvolti nell'assistenza, con conseguenze non piccole sul piano economico e organizzativo del welfare socio-sanitario. Sono numeri consistenti dei quali, tuttavia, non vi è certezza dato che la raccolta è stata fatta per stima di un fenomeno che ha ampi aspetti non dichiarati.
Il sistema sanitario, i malati e le loro famiglie, avrebbero un estremo bisogno di dati certi anche per favorire le forme di collaborazione possibili tra servizio pubblico professionale e sommerso familiare. E' necessario un riconoscimento funzionale dei caregiver familiari anche quando svolgono il loro lavoro in modo non retribuito perché è indubbia la loro funzione sociale per i malati e per il servizio pubblico che verrebbe alleggerito da un peso assistenziale che limita, quando non impedisce, la qualità degli interventi.
In Italia, come in Europa, quello dell’assistenza per chi soffre di Alzheimer è un tema caldo: ci sono aree con una buona qualità assistenziale e altre in cui c’è totale assenza di servizi: solo il 50% delle regioni italiane ha promosso un percorso terapeutico diagnostico e assistenziale per persone con demenza.
Nota. Considerazioni sul passaggio del malato in una struttura specializzata
- E' bene ricordare quanto per il malato e la famiglia sia drammatico il passaggio dalla assistenza familiare alla assistenza specializzata in struttura protetta. Sulle strutture adibite a questo ruolo si sono dette molte cose sull'onda di fatti di cronaca. Molte situazioni sono ancora a un basso livello di servizio, ma sono anche numerose quelle che operano con competenza e qualità. Sul piano nazionale non si possono che riferire cose note: occorrono centri privilegiati che possano accompagnare le persone nel corso della malattia e anche questa non è una cosa facile.
- I cosiddetti centri per le demenze sono spesso sovraccarichi di lavoro, hanno pochi operatori, spesso con competenze disomogenee e con alto turn over. Così ricoverati e famiglie non hanno riferimenti fissi e aumenta in loro il disorientamento. In queste situazioni la presenza di un caregiver di riferimento, di un "tutore-mediatore", permette di dare continuità di accudimento al paziente e continuità di rassicurazione alla famiglia, dato che è la persona che capisce meglio i bisogni espressi e inespressi di malato e famiglia.
- Senza contare i casi eccezionali e specifici, come ad esempio un ricovero in ospedale. Se un malato di Alzheimer si fa male e deve andare in ospedale, non può essere trattato come un paziente qualsiasi. Fa fatica a recepire le indicazioni, tendenzialmente non ricorda ciò che gli viene detto, va curato con grande specificità. Una situazione in cui il caregiver può fornire comprensione e tramite alle attività ospedaliere che per il malato sono incomprensibili.
- E poi c’è la questione delle RSA: quando il paziente non è più gestibile in famiglia e deve essere ricoveratato temporaneamente o in modo permanente in una struttura di accoglienza, la presenza continuativa del caregiver familiare che agevola e "traduce" il cambio di residenza e ne pèermette l'accettazione può aiutare a ridurre il disorientamento del malato e i "sensi di colpa della famiglia".
- Si deve anche avere la lungimiranza di prevedere i mutamenti del welfare socio-sanitario in una società in cui l’aspettativa di vita è sempre più alta e quindi gli anziani - e potenzialmente i malati di Alzheimer - saranno sempre di più numerosi. Presto sarà tutta la società a subire le conseguenze dell’invecchiamento della popolazione, ma sembra che ci sia una grande cecità collettiva su questo tema. Presto chi in famiglia soffre per la malattia di un proprio caro, ha buone probabilità di divenire a sua volta malato di demenza col trascortrere dell'età. Un dato che induce a una superficiale negazione scaramantica, ma che è di realtà statistica.
Il lavoro del caregiver nell'ambito familiare
Il dato che esprime in modo sintetico l’importanza dell’impegno del caregiver familiare di una persona con malattia di Alzheimer, è rappresentato dal numero di ore in cui è impegnato in compiti di assistenza e di sorveglianza. Un compito che viene svolto su una singola persona per un periodo anche assai lungo (da 3 a 15 anni), tanto da detrminare una diade di legame non facilmente scindibile e non facilmente gestibile con distacco professionale.
Il lavoro ha inoltra aspetti di intimità che non sono occasionali o temporanei, ma quotidiani, esclusivi e di lunga durata (in media valutabili in 3-4 ore al giorno e, talora, anche in circa 1-2 ore nella notte) considerando il tempo dedicato a: igiene personale, preparazione e somministrazione dei pasti, dispensazione dei farmaci e delle medicazioni, attenzioni sociali, dialoghi di sostegno, ecc. A queste poi si devono aggiungere in molti casi anche ore dedicate alla pura e sempice attività di sorveglianza per evitare che il malato si procuri danno o che lo provochi a altri componenti familiari o, infine che determini danni materiali alla casa.
Sulle ore dedicate all’assistenza diretta e di sorveglianza incide lo stadio di malattia, mentre il poter disporre di un supporto privato aggiuntivo (ad es. badanti, a ore), sebbene produca una diminuzione di impegno tecnico di gestione del malato, è meno rilevante, poiché le mansioni dell’assistenza emotiva rimangono in carico al familiare e per un malato di demenza questo aspetto è basilare per limitare la sua sofferenza.
I caregiver familiari sono coinvolti sia sul piano pratico-organizzativo che su quello emotivo. Questo duplice carico, definito come "caregiver burden" (che letteralmente significa “peso” legato all’assistenza di un malato), può portare a problemi di salute al caregiver familiare (insonnia, stanchezza, ecc.), a difficoltà di tipo emotivo (ansia e/o depressione, rabbia, frustrazione, senso di colpa, angoscia) e a problemi relazionali (isolamento sociale, diminuzione del tempo da dedicare ai propri bisogni, ad altri ruoli familiari, genitoriali, coniugali, professionali).
La graduale riorganizzazione dei tempi, spazi e ruoli richiesta dall’assistenza al familiare o amico con malattia di Alzheimer, espone l’intero sistema familiare a pressioni e a confronti che rischiano di destabilizzare il caregiver familiare, anche in modo drammatico. Possono emergere nuovi conflitti, secondari a stanchezza, problemi economici o decisioni da prendere. Sicuramente la demenza modifica lo stile di vita dell’intero sistema familiare, e il rischio che il caregiver familiare da "sano" divenga un "malato" sono alti.
Il percorso psicologico della famiglia
La comunicazione della diagnosi, se fatta in modo adeguato, permette una buona conoscenza di quello che sta accadendo in tempi abbastanza brevi, ma l’elaborazione emotiva delle informazioni apprese è più lunga e complessa.
La diagnosi ha generalmente un impatto molto forte sulla famiglia, che reagisce come può di fronte a un cambiamento sostanziale di tutto il nucleo familiare. Non sempre le soluzioni attuate sono le più adatte e il progredire della malattia rende le risposte sempre parziali e provvisorie.
Il coinvolgimento dell’intera famiglia è importante perché la patologia richiede una riorganizzazione dei ruoli e una rinegoziazione dei modelli relazionali sviluppati in precedenza all’interno della famiglia stessa. Tutto questo comporta il prendere decisioni. Una mancata presa di coscienza e di decisionalità può aumentare le conseguenze negative della malattia e creare stress nei componenti familiari.
Caregiver e famiglia devono riuscire a mantenere una lucidità razionale ed affettiva per giungere a decisioni e comportamenti adeguati alla collettività in cui si vive e non solo per il malato. Si noti che il malato trae beneficio dalla socialità, ma la famiglia può dover affrontare uno squilibrio che sarebbe dannoso per il collettivo familiare e comunque, in ultima analisi, anche per il malato. Bisogna trovare un equilibrio che non sia di negoziazione, ma di scelta consapevole per ogni membro familiare. Una scelta che non ha nulla di democratico perché è vocazionale.
Il percorso psicologico che intraprende un familiare per cercare di “accettare” la malattia può essere inizialmente caratterizzato da reazioni quali la negazione, l’incredulità, la confusione e infine l'ereditarietà della patologia. Il timore di essere portatore del “gene” della malattia, con quello che ne deriva, o di trasmetterlo ai propri figli emerge spesso fin dai primi incontri con gli operatori sanitari professionali.
In una fase più avanzata di malattia, la perdita di autonomia in seguito ai crescenti deficit cognitivi e funzionali, richiede una nuova riorganizzazione e il ricorso ad aiuti domestici o a badanti che provvedano alla sorveglianza o all’assistenza diretta del paziente, con nuovi costi economici ed emotivi. I costi fisici ed emotivi sono più elevati quando il caregiver familiare non ha supporti esterni ed è impegnato nell’assistenza per 24 ore al giorno. Il grado di stress è direttamente correlato all’aumento delle ore di assistenza e che la depressione è secondaria più all’aumento di stress che alla gravità della patologia.
In questa fase, il prendere più consapevolezza della malattia scatena nel caregiver familiare reazioni di ansia, che spesso si traducono in un atteggiamento di iperattivazione per placarla. Man mano che la malattia progredisce, il caregiver familiare si rende conto che il suo continuo investimento di energie per portare il malato alla condizione “normale” non può andare a buon fine. Emerge quindi il sentimento di delusione, di fallimento, che spesso provoca rabbia, irritazione e nervosismo.
Nota. C'è un punto doloroso che si fatica a riferire, ma che è pratica evidenza in chi frequenta i luoghi di degenza. Troppo spesso dopo aver ricoverato il proprio caro "che ormai non c'è più con la testa" all'atto pratico, dapprima si diradano le visite, e poi ci si "dimentica" di lui . Un processo di rimozione frequente causato dal fatto che "la vita continua", che si deve "pensare a chi c'è" e non c'è spazio per chi "non c'è più". Di fatto inconsciamente abbiamo decretato la morte del nostro caro. Non consideriamo il fatto che la persona demente raramente "non c'è più" del tutto. Noi valutiamo la sua presenza con il nostro metro di efficienza che talora propende all'autogiustificazione per la sofferenza che ci provoca il vedere il nostro caro così "perso". La demenza negli stadi più avanzati è uno stato terribile: il malato è alla continua ricerca di se stesso e i ricordi sopraggiungono senza logica temporale, vive continuamente il presente che non capisce basandosi su ricordi in cui persone, situazioni e tempi si mescolano. Così non riesce a farsi riconoscere da chi gli è vicino, sente di aver perso la sua identità e ha bisogno di rassicurazioni per quella parte residua di lui che cerca la vita, che cerca di rispondere a "chi sono". E così aumenta la sua rabbia verso un mondo che non capisce e anche verso se stesso che non riconosce più. In questo quadro i familiari e i caregiver familiari sono investiti dalla medesima domanda, un "chi sono e cosa ci faccio qui" che esige una risposta non solo caritatevole (un atteggiamento che risponde al proprio bisogno di giustificare la presenza di fronte al malato con uno inconscio "io sono bravo perché sono caritatevole" e la mia sofferenza è lenita da questo mio pregio, da questo mio narcisismo. La carità nasconde sempre una quota di narcisismo). In questo complesso di situazioni e reazioni giustamente l'operatore sanitario e quindi il caregiver professionale pone la necessità di non farsi troppo coinvolgere emotivamente. Questo è giusto perché la professionalità deve basarsi sulla capacità di giudizio competente con decisionalità operativa e non troppo con accondiscenza emotiva verso il malato e verso se stessi. Il caregiver familiare nel suo operato capovolge l'approccio che è tendenzialmente emotivo (cioè rivolto soprattutto alla persona e poco alla malattia, che è compito soprattutto degli operatori sanitari professionali). La demenza è anche una situazione che determina mutamenti nelle persone di assistenza volontaria, come i caregiver familiari, dapprima si ha, come si è detto, la costrizione a dover avere un ruolo che mai si era pensato di dover fare nella propria vita, e poi lentamente ci si accorge che quello che era nato come un dovere o una necessità (ovvero una coercizione), diventa una relazione, una appartenza, un nuovo modo di vedere la propria vita con occhi più essenziali, con emozioni primigenie, con un affettività prima sconosciuta. Tutto diviene positivamente oscillante tra il desiderio che il nostro caro muoia nel sonno, e così ci liberi di sentimenti tormentati, e la constatazione di una nostra identità sconosciuta nella quale il prendersi cura del demente è un espansione della nostra personalità che non conoscevamo. Nel curare una persona fragile siamo noi stessi divenuti più fragili e meno propensi a vivere superficialmente. Dunque fare il caregiver familiare è un dovere? No, è una scelta, come lo è quella di non volerlo fare, ma per entrambe le scelte non si deve giudicare, a ciascuno la sua libertà senza categorie di merito. Quando al caregiver familiare capita di raccontare quel che fa, la reazione di chi ascolta è "come sei bravo, io non ci riusciri mai". Con questa frase di fatto chi ascolta pone il caregiver su un altare e esaltando l'altro come supereroe giustifica di fatto il suo disimpegno. Non capisce che il suo disimpegno è scelta perchè magari esprimerà il suo merito in altre situazioni. Il "peccato laico" è l'indifferenza.
Le fatiche psicologiche del caregiver familiare
Quattro sono le fasi di affaticamento principali del caregiver familiare nell'esercitare il proprio compito:
- Dalla rabbia al senso di colpa alla depressione. Il caregiver familiare si arrabbia con se stesso percependosi come impotente e incapace di risolvere i problemi, e si arrabbia con il malato perché è caduto in questa terribile situazione: è utile che sia consapevole e accetti il fatto che il proprio caro è ammalato e che il suo comportamento patologico non è intenzionale. Molto spesso succede che la rabbia lascia il posto al senso di colpa per essersi arrabbiati con il malato, per aver provato vergogna di alcuni comportamenti del proprio caro, ma anche perché si sente il peso del ricordo di alcune situazioni di contrasto con lui.
- La depressione e l’angoscia sono poi altre reazioni possibili di fronte alla malattia. Tutte queste emozioni rappresentano delle normali risposte ad una esperienza di perdita. Un altro problema rilevante e molto doloroso in questa fase intermedia consiste nella difficoltà del riconoscimento reciproco. Il familiare non riconosce nel malato la persona di sempre, soprattutto in presenza di comportamenti o reazioni fortemente dissimili da quelle conosciute, mentre il paziente, con il progredire della malattia, non riconosce più i familiari e l’ambiente che lo circonda.
- La storia della malattia e il legame affettivo. Dai racconti dei caregiver familiari emerge l’evidenza che anche chi non è riconosciuto dopo una vita trascorsa insieme, rischia di sentirsi derubato non solo del rapporto ma anche della sua stessa storia affettiva. La qualità del legame affettivo è spesso messo a dura prova anche dall’imprevedibilità e dall’assurdità dei comportamenti del malato demente. Alcune convinzioni deliranti sono avvertite dai familiari come malevole nei propri confronti, mentre i comportamenti aggressivi, oppositivi e la labilità emotiva sono interpretati come intenzionali e quindi creano confusione e difficoltà di gestione, oltre che “appesantire” il carico emotivo.
- L'accettazione della malattia e del malato. Ad un certo punto della malattia, il caregiver familiare giunge all’accettazione della situazione ed è grazie a questa che riesce ad affrontare le proprie sofferenze psicologiche e a superarle. Nell’ultima fase della malattia i bisogni del malato sono soprattutto di tipo infermieristico o assistenziale e le problematiche delle fasi precedenti sono per la maggior parte scomparse. Questa è la fase in cui il caregiver familiare deve fare i conti con la riduzione drastica dei segnali di relazione con il proprio caro ed è qui che il supporto dei familiari o di altri può essere fondamentale per arginare il vuoto e il dolore che arriveranno anche con la morte del paziente.
In conclusione, la variabilità dei comportamenti del paziente aumenta nel caregiver familiare il isorientamento e il senso di fragilità e impotenza, con una oscillazione continua di sentimenti, dalla compassione alla rabbia, dalla disponibilità all’insofferenza, dalla pazienza all’intolleranza. L’imprevedibilità dei cambiamenti nel paziente può portare spesso il caregiver familiare a mettere in atto comportamenti contradditori, con eventuali sensi di colpa sul lavoro svolto o per alcuni atteggiamenti.
Sono tante le variabili che possono influire sullo stress del caregiver familiare e sulla gestione del malato, ma sicuramente il chiedere aiuto a chi lavora con i malati di Alzheimer o a persone che vivono situazioni simili può aiutare molto nel trovare soluzioni pratiche e nel condividere un “fardello”, a volte, molto pesante. La consapevolezza della malattia da parte del caregiver familiare è fondamentale perché facilita la comprensione dei bisogni del malato e quindi facilita la cura.
Inoltre alcuni studi dimostrano che una maggiore comprensione da parte dei familiari sulle condizioni del proprio caro aumenta il senso di competenza gestionale, facilitando una certa stabilità emotiva.
Come il caregiver deve affrontare i propri sentimenti
Si possono distinguere varie strategie, alcune più centrate sul problema e quindi ad esempio volte alla ricerca di informazioni sulla problematica, altre più orientate sulle emozioni come ad esempio cercare un supporto, sostegno emotivo da professionisti, amici, volontari, ecc. Utilizzare entrambe le modalità potrebbe essere la soluzione più utile per un miglior adattamento.
In sintesi, possiamo sostenere che sarebbe utile ricordare a se stessi che si è importanti per sé e per il malato, informarsi, considerare i propri limiti, soddisfare i propri bisogni ed interessi, condividere i problemi con la famiglia, non avere paura o vergogna di ammettere le difficoltà, farsi aiutare da esperti, prendersi periodi di riposo, cercare sollievo morale, parlando con qualcuno in grado di ascoltare.