Perché nel blog di madrugada abbiamo voluto uno spazio particolare, un luogo “solo per la poesia”? Forse per un sommesso invito al silenzio, all’ascolto, al raccoglimento, alla bellezza. O perché, mentre arranchiamo sotto il dominio del mercato e dell’utile, la poesia è sovranamente inutile, gratuita per definizione. La scelta dei poeti da ricordare non è casuale, segue il filo rosso che unisce l'impegno civile scritto nei testi e vissuto personalmente, non disdegnando i legami con le tradizioni linguistiche popolari e le spiritualità più coese con il mondo contemporaneo in tutte le sue forme, come estremo antidoto all’usura delle parole sbriciolate dalla chiacchiera quotidiana. La rubrica con testo poetico, note biografiche, video e audio, viene aggiornata senza periodicità.
In questa pagina abbiamo ricordato: Giorgio Gaber, Jean-Claude Izzo, Roberto Vecchioni, Giorgio Caproni, Omero, Iosif Brodskij, Wisława Szymborska, Afro Women Poetry, Segen, Rainer Maria Rilke, Chandra Livia Candiani, Alda Merini, Léopold Sédar Senghor, Choman Hardi, Romano Pascutto, Nunzia Binetti, Alida Airaghi, David Maria Turoldo, Ada Negri, Pier Paolo Pasolini, Edith Dzieduszycka, Primo Levi, Ugo Morelli, Ndjock Ngana, Maria Rosaria Madonna, Kikuo Takano.
Nota di servizio. I contatti per osservazioni e commenti su questa rubrica avvengono esclusivamente via e-mail al seguente indirizzo: [email protected] . Servizio informativo gratuito a cura di Alessandro Bruni.
3 novembre 2019
Kikuo Takano (1927-2006)
Il gancio
Dentro di me si muove
un gancio di ferro
chissà da quando chissà perché
lasciato chissà da chi
appeso così è un gancio proprio pauroso.
e speravo davvero che con la ruggine
mai dovessi provarlo (…)
(libera traduzione di Renato Minore)
Io ci aggiungerei una certa difficoltà di fronte all’Impersonale. Con chi prendersela se qualcosa non funziona? La macchina della razionalità affonda i denti nell’individuo in carne e ossa per dialogare con un Io creato dalla macchina stessa e dunque con meccanismi di natura numerica. L’io reale, il gufo che attende il suo turno nell’ufficio postale, lamentando e spazientendo accusa la sua impotenza come un colpo mortale, come si trattasse di aver visto l’efficienza dei campi di sterminio o la potenza dell’atomo nientificare Hiroshima. Un sentimento strano che non si lascia imbrigliare dalla metrica, né dai ritmi o dalle assonanze con cui si fa ancora poesia, semplicemente perché chiede di non piacere ma di annullarsi nel poeta stesso. E dunque l’unico rapporto tra l’Io ed il Mondo si fonda sulla negazione reciproca. Occorrono dei buoni elettroni per fondare un legame, altrimenti dominano quelli cattivi che spingono in basso lo sguardo o contro un cellulare l’orecchio per trascendere il filo che si percorre, secondo R. Minore.
Algoritmo: l'io
Touch-screen e Dio in alto.
L’Everest affacciato alla scrivania.
Inutile rimpiangere la genealogia dell’india.
Ossido di carbonio sorpreso a respirare.
Il Nepal di via Einaudi si collega con la Cina.
Ma bisogna acquisire pratica di sentieri.
Salto di crepaccio
quanto nella lingua.
Parità con la pazienza del proletariato:
In fondo a un libro, incatenato nel Tartaro.
Il numero non era giusto
bisognava ricomporlo.
Avrebbe risposto un impiegato delle poste
Alzando lo sguardo dalla pece dello schermo.
E poi con gli uncini nello stomaco
come si fa a digerire Marx-Engels?
Tratto da L'Ombra delle Parole Rivista Letteraria Internazionale del 3 novembre 2019
Altre poesie
Vorrei la parola
per morire
come l’abisso da cui
non si torna più a galla
dopo il folle balzo,
come la montagna da cui
mai in dietro si torna
dopo averla scalata.
Vorrei la parola,
sia profonda o sia alta,
per morire convinto.——————————————————————-
Ho cercato di afferrare l’azzurro
del mare, ma non è azzurra l’acqua
che ho preso – sono forse troppo
piccole le mie mani.
Se mi chiedessi da dove sono venuto,
direi: son venuto dal mare.
Se mi chiedessi dove vado, rispondo:
sempre al mare.Di fronte al mare non servono parole
impertinenti, non arroganze o scuse;
non serve il misero confine
che me da te separa,
né i piccoli nomi, né i poveri sogni,
né tutto ciò che ci portiamo addosso.Di fronte al mare mi sta bene essere nudo
come quando sono nato –
così rendo al mare
ciò che mi tocca nell’intimo del cuore,
chiedendo perdono per il troppo che ho chiesto.Di fronte al mare mi sembra di essere
un fanciullo sgridato –
sembriamo tutti fanciulli sgridati.
Nota biografica. Kikuo Takano (Isola di Sado, 20 novembre 1927 – 1º maggio 2006) è stato un poeta e matematico giapponese. Cominciò a scrivere le sue prime poesie alla fine della II guerra mondiale. Fonte d'ispirazione sono stati il surrealismo e Heidegger. Ha scritto poesie che si interrogano sul significato dell'esistenza. È stato premiato con il Premio Attilio Bertolucci per le sue poesie. Takano ha condotto inoltre ricerche sulla formula del pi greco ed è stato reso noto principalmente da tali ricerche.
Libri tradotti in italiano:
- L'anima dell'acqua e altre poesie (Empirìa, Roma, 1996, trad. Y. Matsumoto, cura M. Giannotta, pp. 52, ISBN 88-85303-38-2)
- Secchio senza fondo - poesie 1952-1998 (Fondazione Piazzolla, Roma, 1999, trad. Y. Matsumoto, cura P. Lagazzi, pp. 223)
- Nel cielo alto - poesie scelte (Mondadori, Milano, 2003, trad. Y. Matsumoto, cura P. Lagazzi, pp. XXIII-160, EAN: 9788804513162)
- L'infiammata assenza (Edizioni del Leone, Venezia, 2005, trad. Y. Matsumoto, cura R. Minore, pp. 112, EAN: 9788873141488)
- Il senso del cielo - poesie 1955-2006 (Passigli, Firenze, 2017, trad. Y. Matsumoto, cura R. Minore, pp. 203, EAN: 9788836815890)
11 ottobre 2019
Lettura di una poesia di Maria Rosaria Madonna (1942-2002)
[da Stige. Tutte le poesie (1990-2002) Progetto Cultura, Roma, 2018, pp. 150 € 12]
È un nuovo inizio. Freddo feldspato di silenzio.
Il silenzio nuota come una stella
e il mare è un aquilone che un bambino
tiene per una cordicella.
Un antico vento solfeggia per il bosco
e lo puoi afferrare, se vuoi, come una palla di gomma
che rimbalza contro il muro
e torna indietro.
«È un nuovo inizio». Così inizia la poesia. Ma che significa? Inizio di che cosa? Di che cosa si parla? – Il secondo emistichio complica la questione perché non risponde al primo emistichio ma si limita a prolungarne l’eco di dubbio travestito in una forma assertiva: «Freddo feldspato di silenzio». Il tono assertivo contrasta singolarmente con il dubbio e l’ambiguità che promana da quelle due prime proposizioni assertorie.
Il secondo verso aggiunge ambiguità e dubbio al già dubbioso incipit. Il terzo e il quarto verso sciolgono ogni dubbio: qui siamo scaraventati nel mondo onirico-surreale, illogico e irrazionale perché si dice che il «mare è un aquilone che un bambino tiene per una cordicella». Un non-sense.
Il quinto verso cambia spartito. C’è un «vento» (che è detto «antico») che «solfeggia» «per il bosco». Stiamo attenti alla dizione «solfeggia», una scelta verbale che serve ad introdurre un mondo di suoni determinato dallo stormire del vento che attraversa il «bosco». Si parla forse qui del bosco inteso come mero paesaggio? O si tratta di un «altro» bosco? Io ritengo che qui si tratti di un «altro» bosco, e precisamente del «bosco» quale metafora e simbolo dell’Essere. È dell’Essere che qui si parla, non certo del bosco come paesaggio.
Il sesto verso.
Qui il poeta si rivolge direttamente al lettore e gli dice: «lo puoi afferrare, se vuoi, come una palla di gomma». Anche qui la scelta della immagine corriva induce il lettore in imbarazzo. Dice il poeta: «lo puoi afferrare». Che cosa il lettore può «afferrare»? Il bosco del paesaggio? No di certo, qui ad essere in questione è l’Essere. Allora, l’Essere è come una «palla di gomma che rimbalza contro il muro»? «e torna indietro»?
Che cos’è che «torna indietro»? – Ma è chiaro: è l’Essere che qui «torna indietro», scrive con un raffinatissimo tocco meta ironico il poeta. È l’essere che «torna indietro». Enunciato ambiguo e sibillino, travestito sub specie di frasario assertorio.
scritto da Giorgio Linguaglossa, pubblicato in L'ombra delle parole del 10 ottobre 2019
3 ottobre 2019
Prigione
Vivere una sola vita,
in una sola città,
in un solo paese,
in un solo universo,
vivere in un solo mondo
è prigione.
Amare un solo amico,
un solo padre,
una sola madre,
una sola famiglia,
amare una sola persona
è prigione.
Conoscere una sola lingua,
un solo lavoro,
un solo costume,
una sola civiltà,
conoscere una sola logica
è prigione.
Avere un solo corpo,
un solo pensiero,
una sola conoscenza,
una sola essenza,
avere un solo essere
è prigione.
poesia di Ndjock Ngana
Ndjock Ngana - poeta, scrittore e mediatore culturale, è nato in Camerun nel 1952. Il suo nome, Ngana, nella lingua dell’etnia basaa, da cui proviene, significa “custode delle tradizioni”. Dal 1973 ha lasciato il suo paese per trasferirsi in Italia. Attualmente vive a Roma. Ha seguito la strada dell’impegno politico, sociale e culturale per la conservazione delle culture africane e per la diffusione delle altre culture. Nel 1989 ha fondato l’associazione Baobab con intellettuali africani e latinoamericani per l’integrazione degli immigrati e la convivenza tra razze, culture, religioni. È anche fondatore dell’associazione Kel ’Lam («un bel giorno», in lingua basaa) di cui è responsabile culturale. Nelle sue poesie emerge il profondo senso di identità trasmesso dagli anziani («gli scrigni della parole»), indicando nel dialogo l’unica forma di riscatto per qualunque essere umano. In Italia ha pubblicato diverse raccolte di poesie, tra le quali Foglie vive calpestate (1989, Ucsei-Regione Lazio) e Nhindo-Nero (Anterem, 1995) in lingua basaa con traduzione in italiano; la raccolta di poesie e racconti Maeba. Dialoghi con mia figlia (Ass. Kel ’Lam, 2005). Nella sua opera Stress 1: Quel maledetto pezzo di carta (Kel ’Lam, 2006) presenta le storie di normale disavventura di un immigrato in Italia raccontate in chiave tragicomica. L’ultima sua pubblicazione è la raccolta di poesie La nostra Africa (Vis, 2017). Effe Emme
10 agosto 2019
Bellezza
Il testimone, il chimico, lo scrittore, il narratore fantastico, l'etologo, l'antropologo, l'alpinista, il linguista, l'enigmista, e altro ancora. Primo Levi è un autore poliedrico la cui conoscenza è una scoperta continua. Nel centenario della sua nascita (31 luglio 1919) abbiamo pensato di costruire un Dizionario Levi con l'apporto dei nostri collaboratori per approfondire in una serie di brevi voci molti degli aspetti di questo fondamentale autore la cui opera è ancora da scoprire.
[...]
Una poetica materica trova in Levi la via di avvicinarci alla bellezza, come la farfalla e la fiamma della candela nella favola sufi del poeta Attar, compenetrandosi con l’esperienza vissuta. Avvicinarsi, o meglio approssimarsi, alla bellezza, è quanto traspare anche, ad esempio, dalla nota riflessione che, in La chiave a stella, Levi dedica al lavoro: “Se si escludono istanti prodigiosi e singoli che il destino ci può donare, l'amare il proprio lavoro (che purtroppo è privilegio di pochi) costituisce la migliore approssimazione concreta alla felicità sulla terra: ma questa è una verità che non molti conoscono”. L’incertezza dell’accessibilità, quindi, è un filo conduttore che tra l’altro rende attuale e anticipatore, come spesso in Levi, il suo modo di narrare la bellezza.
Oggi, infatti, nel tentativo di comprendere qualcosa di più della bellezza, riconosciamo che in essa vi è piacere e dolore. L’ipotesi è che l’accessibilità alla bellezza, intesa come espressione sufficientemente buona del proprio mondo interno nella relazione con gli altri e il mondo, sia possibile e difficile allo stesso tempo, perché la bellezza è ambigua e accedervi esalta il suo contrario, non lo supera ed elimina. Più s’intensifica la luce, più aumenta la sua separazione dall’ombra; i margini divengono confini e, perciò, più difficili da attraversare. Più alta è l’esperienza di bellezza che si para innanzi, più sembrano ridursi le possibilità e lo spazio del significato e del linguaggio per accedere all’espansione interna richiesta: quell’accesso esige un’apertura all’immediatezza dell’indicibile e allo stesso tempo riduce la resilienza degli equilibri e degli ordini di senso esistenti, esaltando il valore rassicurante di questi ultimi.
[...]
A noi rimane un’atmosfera di invito delicato e non insistito alla responsabilità: la bellezza può essere di tutti, ma l’accessibilità ad essa richiede l’elaborazione di una soglia la cui natura e le cui caratteristiche meritano di essere approfondite. Si tratta cioè di analizzare i vincoli e le possibilità che intervengono quando, per dirla con S. T. Coleridge, autore caro a Primo Levi, non ci dedichiamo soltanto alla “lanterna di poppa, che illumina solo le onde che ci siamo lasciati alle spalle”, ma cerchiamo di accendere la lanterna di prua che tende al futuro, all’autoelevazione di sé, all’espressione sufficientemente compiuta del proprio mondo interno, alla creazione di un proprio mondo come progetto e invenzione. Allorquando ci volgiamo a perseguire l’“oltre” per noi, quando cioè mettiamo a tema la nostra stessa vita, come Primo Levi ha fatto con la sua esistenza, fino in fondo.
scritto da Ugo Morelli, pubblicato in https://www.doppiozero.com/materiali/bellezza-0 il 10 agosto 2019.
segnalato e stralciato da Alessandro Bruni
2 luglio 2019
Perché le ferite dello Spirito non guariscono e lasciano vistose cicatrici
La vita è una serie di collisioni con il futuro. Il decadimento delle categorie psicologiche, le psicologie tendono alla psicosi, L’Io è stato ridotto a nuda voce. Recensione di Giorgio Linguaglossa al libro di Edith Dzieduszycka, inediti da L'immobile volo.
«Le categorie psicologiche… sono diventate categorie politiche. Le tradizionali linee di demarcazione tra psicologia da un lato e filosofia politica e sociale dall’altro, sono state rese antiquate dalla condizione dell’uomo della nostra epoca: processi psichici un tempo autonomi e identificabili vengono assorbiti dalla funzione dell’individuo nello stato – dalla sua esistenza pubblica. Problemi psicologici diventano problemi politici: il disordine individuale rispecchia più direttamente di prima il disordine dell’insieme, e la cura del disturbo personale dipende più di prima dalla cura del disturbo generale. L’epoca tende al totalitarismo anche dove non ha prodotto stati totalitari. Fu possibile elaborare e praticare una psicologia come disciplina particolare finché la psiche fu in grado di contrapporsi al potere pubblico, finché vi fu una vera vita privata, realmente desiderata e in grado di creare da sé le proprie forme». (Herbert Marcuse, Eros and Civilisation, 1955, trad it. Eros e Civiltà, Einaudi, 1964 p. 47)
Ortega Y Gasset (Sull’amore, Sugarco, 1996 p. 76) ha scritto: «La vita è una serie di collisioni con il futuro: non è una somma di ciò che siamo stati, ma di ciò che desideriamo essere. L'uomo è l'essere che ha assolutamente bisogno della verità e viceversa, la verità è l'unica cosa di cui l'uomo ha essenzialmente bisogno, il suo unico bisogno incondizionato»; ma potremmo anche capovolgere il suo assunto affermando che l’uomo è l’essere che non ha assolutamente bisogno della verità, la verità è l’unica cosa di cui l’uomo non ha assolutamente bisogno.
La problematica che Edith Dzieduszycka affronta in questo libro è esattamente questa: è possibile vivere autenticamente nel freudiano Principio di realtà? È possibile un barlume di felicità nell’ambito del freudiano Principio di piacere delle odierne società occidentali evolute a capitalismo dispiegato e a repressione invisibile e capillare? È possibile pensare e parlare in maniera autentica nell’ambito della categoria della «confessione» e del «monologo interiore» e del «flusso di coscienza»? E, in ultimo, è possibile l’elaborazione dello stesso pensiero cosiddetto libero costretto entro il circolo ermeneutico del discorso rivolto ad un interlocutore? Ad un interlocutore risponditore? Domande inquietanti, dalla profondità abissale che ci portano nel cuore del problema dei problemi.
Il libro è costituito da due «voci», una maschile e l’altra femminile, ridotte alla «nuda vita». L'Io è stato ridotto a nuda voce. Due «voci» monologanti, presumibilmente due persone conviventi o sposate dei giorni nostri di un qualsiasi luogo insignificante dell’Occidente evoluto che mettono in opera una «confessione» separata, a compartimenti stagni, in camere separate, blindate dalla incomunicabilità generale. Ciascuna «confessione» avviene nell’ambito del proprio Foro interiore, ciascuna parla a se stessa per parlare all’altra, ciascuna parla un linguaggio che l’Altro intende benissimo ma che, proprio per questo, lo fraintende e lo equivoca. Perché ciò che aziona le «voci» è la mole invisibile dell’Inconscio. Ecco spiegato il titolo L’immobile volo, in realtà i due Personaggi, le due «voci», pur legate presumibilmente da una contiguità passata e da una relazione intima pregressa, ciascuna, dicevo, è sostanzialmente «immobile», cioè incapace a superare e infrangere lo schermo del Foro interiore, la convenzione sociale della «confessione» e quant’altro. Ergo, ciascuna «voce» è inetta e infetta, e falsa, fortificata dalla propria falsità, falsificata dalla falsa coscienza con la quale si presenta la civiltà dell’ordine borghese dei rapporti di produzione e delle forze produttive che ubbidiscono alle regole del mercato e del capitale.
[…]
Le categorie politiche si sono trasmutate in categorie psicologiche, ed anche estetiche, e viceversa. Il postruismo (dizione di Maurizio Ferraris) e il truismario (dizione mia) sono categorie imperfette e precarie che dalla «nuda vita» (dizione di Giorgio Agamben) sono passate nella sfera psicologica, nella sfera politica e di qui all’estetica; ormai le categorie sono transitabili, permutabili e mutagene; non c’è nulla di solido in esse, sono precarie, inferme, sono entità mass-mediali, entità ansiolitiche, categorie di plastica che ingolfa il pianeta totalitario. Il mondo è andato in frantumi e alla rovescia ribaltando le categorie che un tempo erano dritte e mandando all’aria le cose statuite. L’ordo rerum del capitalismo sviluppato impone il suo marchio vigoroso sui beni di consumo e sugli uomini, imprimendo sulle loro carni e sulle loro psicologie il sigillo della infelicità coniugale e generale. L’infelicità coniugale è diventata una sorta di epifenomeno della infedeltà e della infelicità generali. E così il disordine delle menti rispecchia il disordine generale che vige nel regno del capitalismo galoppante. In queste condizioni, parlare di libertà, di felicità e di foro interiore significa partecipare inconsapevolmente o colpevolmente all’imbonimento generale delle masse e favorire la barbarie della civilizzazione ininterrotta.
Perché le ferite dello Spirito non guariscono e lasciano vistose cicatrici.
scritto da Giorgio Linguaglossa, pubblicato in L'ombra delle parole del 2 luglio 2019
segnalato e stralciato da Alessandro Bruni
Edith Dzieduszycka, inediti da L'immobile volo
LEI
Sì
ma sì
lo so
certo che lo so
da tempo, tanto tempo, tempo che non sospetti
forse
ma forse sbaglio
come tu sai - credo - che io so
ma fai finta di nulla
come faccio anch'io,
così entrambi
in un livido vortice
di silenzio
LUI
prevedo che sarà quest'oggi una giornata no
Mi basta il suo sguardo
obliquo
sfuggente
per capire l'umore
l'oscuro meccanismo che di quando
in quando la pervade
la rode
rendendola straniera al decorso normale
pensa forse "banale" della vita vissuta
In quei casi
sto zitto
aspetto che passi
LEI
ti dirò mai
un giorno
quello che all'interno in fondo
a qualche botola
ogni giorno accumulo e mescolo
e giro
e schiaccio
per far posto ad altro che verrà
Ingredienti che si congiungono o si respingono
con disgusto amaro
che mai sospetteresti mi abitassero
inquilini potenti
del mio condominio
dalle finestre
chiuse
LUI
non si accorge
lei
che mi accorgo
io
dei suoi stati d'animo per cui sono sicuro
che sia convinta
lei
di vivere insieme ad un essere cieco
un uomo senz'acume né sensibilità
una persona rozza
ma forse ha ragione, non posso sempre stare dietro
ai suoi umori
ai suoi capricci
al suo mutismo
né passare il mio tempo a chiedermi perché
oggi
mi fa il broncio
LEI
da tanto tempo
dunque
nemmeno saprei dire esattamente
quanto
- perché
ora emerge?
perché
ora di più? -
s'incrociano - che dico - lungi dall'incrociarsi
parallele
diramano
su sentieri vicini
le nostre due strade senza mai incontrarsi
in seno alla foresta del non-detto
Soltanto all'orizzonte
fanno finta
d'unirsi
LUI
non saprei calcolare con molta precisione
da quando è scattato
quell'andazzo perverso
Ha cominciato
lei
a staccarsi
sfuggente?
O sono stato io
a sentirmi estraneo
un poco alla volta
al trantran quotidiano
per lo più prevedibile del grigio condividere
giornate mesi anni
ognuno prigioniero dei propri pensieri
ricordi e rimpianti
Edith Dzieduszycka
D’origine francese Edith de Hody Dzieduszycka nasce a Strasburgo dove compie studi classici. Lavora per 12 anni al Consiglio d’Europa dedicandosi parallelamente al disegno e alla poesia (un premio nel 1967 e presenza in varie antologie). Nel 1968 si trasferisce in Italia: Firenze, Milano, dove si diploma all’Accademia Arti Applicate. Dal 1979 vive a Roma. Oltre alla scrittura conduce un’attività artistica con personali e collettive in Italia e all’estero. Ha pubblicato: La Sicilia negli occhi, fotografia, Editori Riuniti, 2004; Diario di un addio, poesia, Passigli, 2007; Tu capiresti, poesia e fotografia, Il Bisonte, 2007; L’oltre andare, poesia, Manni, 2008; Nella notte un treno, poesia bilingue, Il Salice, 2009; Nodi sul filo, 20 racconti, Manni, 2011; Lo specchio, romanzo, Felici, 2012; Desprofondis, poesia, La città e le stelle, 2013; Lingue e linguacce, poesia, G. Bentivoglio Ed., 2013; A pennello, poesia, La vita Felice, 2013; Cellule, poesia bilingue, Passigli, 2014; Cinque + cinq, poesia bilingue, Genesi, 2014; Incontri e scontri, poesia, Fermenti, 2015; Trivella, Genesi, 2015; Come se niente fosse, Fermenti, 2015 e La parola alle parole, Progetto Cultura, 2016; Intrecci, romanzo, Genesi, 2016; Haikuore, haiku, Genesi, 2017; Bestiario bizzarro (Fermenti); Squarci (ProgettoCultura); numerose antologie, tra cui Come è finita la guerra di Troia non ricordo, a cura di G. Linguaglossa, Progetto Cultura, 2016 e Inquiete indolenze, a cura di R. Piazza, Fermenti, 2017.
Ha curato le pubblicazioni di: Pagine sparse – Fatti e figure di fine secolo, di Michele Dzieduszycki, Ibiskos Ed. Risolo, 2007; La maison des souffrances. Diario di prigionia di Geneviève de Hody, Editions du Roure, 2011; Le sol dérobé, Souvenirs d’un Lorrain 1885-1965, de Marcel de Hody, Editions des Paraiges, 2016.
28 aprile 2019
Ricordando Ada Negri e Pier Paolo Pasolini nella festa delle primule a primavera
La letteratura non si esime dal celebrare la festa primaverile delle primule. Ecco quelle della poetessa più antologizzata dagli abbecedari novecenteschi e mandata a mente da generazioni di scolari, la lodigiana Ada Negri:
Sbocciano al tenue sole
di marzo ed al tepor de' primi venti,
folte, a mazzi, più larghe e più ridenti
de le viole.
Pei campi e su le rive,
a piè de' tronchi, ovunque, aprono a bere
aria e luce anelando di piacere, le bocche vive.
E son tutti esultanza
per esse i colli; ed io le colgo a piene
mani, mentre mi cantan per le vene
sangue e speranza.
A chi storca il naso a tanta immediata versificazione offro come rovescio della medaglia quest’altra luminosa e più ambigua poesia di Pier Paolo Pasolini. Viene dritta dritta dal suo Friuli, “paese di temporali e primule”, e s’intitola Soreli (Sole):
In miès dai ciamps serèns
i troiùs a si incròsin.
Ulì tal soreli pens
al pàusa un zòvin.
Pojàt a un morarùt
ju pai ciamps di Versuta
tai so lavris al strens
na primuluta.
A cola ju la sera,
na oscuritàt tranquila.
Doma chel flòur tal silensi
al disfavila.
[Sole. In mezzo ai campi sereni si incrociano i sentieri. Là, nel sole intenso, se ne sta un giovane. Appoggiato a un piccolo gelso, giù pei campi di Versuta, egli stringe tra le labbra una primoletta. Cade ormai la sera, una oscurità tranquilla. Solo, nel silenzio, brilla quel fiore.]
Ma come tralasciare Le primule incluse dal poeta furlano nella silloge L’usignolo della chiesa cattolica, con il loro carico di innocenti turbamenti, di fanciullezza prima e prime impudicizie?
Dove trovo la forza di ascoltarmi?
Questo enigma pei ragazzi e gli onesti,
questo fido al caldo delle sue vesti,
questa vittima dei suoi sogni insani,
può ancora in sé trovare le freschezze
delle rive di primule, le inezie
affascinanti che il vergine assillano?
Lo può, lo può! Il cuore messo a nudo
mai non cesserà d’essere cuore:
Tu, Dio, come l’allodola mi sai
che de joi muove sas alas contra ’l rai!
Io turbo il pudore delle primule
troppo semplici nella luce rozza
di marzo, se di campane e pioggia
squilla il vivo, laborioso giorno.
Non possono arrossire o infuriarsi
o, se lo fanno, è con occhi arsi
d’amore e di nuove seduzioni.
Mi assomigliano. La loro vergogna
è la mia impudicizia, il loro sogno
ha candide innocenze come il mio.
In esse il mio pudore offeso spio.
…..
tratto da Pallide e destinate a morir nubili / Primule di Angela Borghesi
segnalato e stralciato da Alessandro Bruni
Biografia. Angela Borghesi è nata a Brescia nel 1959. Deve l'attenzione appassionata per alberi fiori e animali al nonno contadino Giulio Conforti, al maestro e ornitologo Giuliano Salvini. Ma, soprattutto, a un luogo speciale del suo paese d'origine: le torbiere di San Pietro in Lamosa. Insegna Letteratura italiana contemporanea all'Università di Milano Bicocca.
5 aprile 2019
Ricordando David Maria Turoldo
Salmodia contro le armi. Appello a tutti gli operai
Tutti giurano sulla Bibbia
e intanto fabbricano armi.
Armi nucleari, armi atomiche,
missili, contromissili, armi chimiche,
gas nervino, armi batteriologiche,
armi psicologiche, armi
armi armi!
E torture!
Due volte distrutta la terra, tre volte
distrutta la terra, dieci volte
cento volte distrutta la terra.
E va bene: distruggeteci subito e sia
finita. Ma non dite:
noi siamo per la pace.
(…)
Meglio subito perduti:
purché non si viva più
in questo immobile terrore,
tutti sotto l’immenso fungo di morte!
Purché nessuno più dica: la pace, la pace!
La civiltà, il futuro, il progresso,
l’unità del mondo!
È vero il contrario; il dominio del mondo!
Il prestigio, la tua ricchezza
e la mia fame. La fame di due
miliardi di uomini, di cinque
miliardi di uomini, domani
di dieci miliardi di uomini:
questo oceano oscuro e ancora immobile.
Almeno esplodesse questo oceano cupo
e immobile; e Dio scendesse
ad agitarlo. Perché da soli
non possiamo, non possiamo!
Nessuno ci libera dai nuovi Faraoni
se Dio non scende a liberarci.
(…)
Uomini, per una divisa
vendete la vostra libertà?
tutti indietro verso la grande foresta:
uccidiamoci subito
prima che sia tardi.
Militarismi nazionalismi razzismi
d’ogni specie, classismi:
come da principio come da sempre.
E Cristo è venuto
ma è come se non fosse venuto.
E a comperare armi sono sempre i poveri
e a fare le guerre sono sempre i poveri:
i potenti vendono, i poveri comperano.
E saranno sempre più poveri
mentre loro saranno sempre più ricchi.
I poveri non posseggono armi
i poveri non hanno diritti!
Almeno gli operai di tutto il mondo
capissero, almeno essi: tutti gli operai!
Che hanno da guadagnare gli operai
a costruire armi?
Tutte armi di morte contro di loro:
costruiscono la loro morte
con le loro stesse mani.
Mai visto le armi uccidere i padroni,
i molti Krupp del mondo;
io ho visto uccidere solo i poveri
e gli operai. Almeno gli operai capissero!
(…)
Operaio, non costruire più armi.
Ogni arma che fai sono moltitudini
di poveri e di operai a essere uccisi, c
on la tua stessa arma.
Come fai a prendere la paga
perché hai costruito armi?
Come fai a lavorare per la pace
se costruisci armi? Come puoi
accarezzare i tuoi bambini
dopo che le tue mani hanno costruito
un fucile una bomba una mitraglia?
Come fai a procreare creando armi?
(…)
Operai, lasciate le fabbriche di armi!
Tutti insieme in un solo giorno,
queste fucine di morte:
insieme provvederemo giustamente alla paga,
lasciatele a un giorno convenuto,
tutti gli operai del mondo insieme.
E scendete sulle piazze, tutti gli operai,
a un ordine da voi convenuto.
E andate sotto le “Case bianche”,
di tutte le capitali
e urlate tutti insieme, operai d’ogni specie,
questa sola parola: non vogliamo
più armi, non facciamo più armi!
Solo questo urlate insieme
nel cuore di tutte le capitali.
E poi vediamo cosa succede.
Per salvarci non c’è altro ormai.
Allora sarete voi i veri salvatori;
operai, fate questo
e vivrete. E vivremo.
E sarete invincibili.
Tutto il resto è un nulla di nulla
anche la religione senza questo
è un correre dietro il vento.
L’obiezione di coscienza:
un lusso inutile;
il movimento per la pace,
una componente al sistema;
non valgono queste contestazioni:
moti di inutili disperazioni.
Solo l'utopia porta avanti il mondo.
David Maria Turoldo (1916-1992). Giuseppe Turoldo (“Bepi il rosso” per i compagni) entra nel 1935 nell’ordine mendicante dei Servi di Maria, assumendo il nome di fra David Maria e nel ’40 viene ordinato sacerdote, tenendo per quindici anni la predicazione domenicale nel duomo di Milano. Subito si impegna in ambiti diversi: predicazione, scritture, assistenza ai poveri e nella Resistenza, alternando l’attività culturale alla testimonianza civile e politica e alla scrittura poetica. Per i suoi scritti anticonformisti viene chiamato «coscienza inquieta della Chiesa». Viene allontanato da Pio XII da Milano per la severità con cui interpreta il vangelo di fronte alla borghesia milanese. A metà degli anni ’60 si trasferisce nella comunità dei Servi di Maria a Fontanella, ma continua a condurre le sue battaglie. Nel suo testamento spirituale, scritto nel 1986, padre David ringrazia i suoi «tre amori»: gli amici laici, i confratelli e i poveri (che lui chiamava «mie radici e mio sangue» e «la mia gente»). Il suo messaggio fondamentale è proprio centrato sulla povertà, «presenza profetica della storia» e fonte di ricchezza interiore. È in nome della povertà, intesa come libertà, che gli uomini rinunciano a possedere e diventano capaci di convivenza fraterna. Foltissima la sua produzione poetica, ricordiamo solo qualche titolo: Io non ho mani, Bompiani, 1948; Fine dell’uomo?, Scheiwiller, 1976; Laudario alla Vergine, Dehoniane, 1980; O gente Terra disperata, Mondadori, 1987; Mie notti con Qohelet, Garzanti, 1992. Effe Emme
12 marzo 2019
Ricordando Alida Airaghi
Due poesie di Alida Airaghi da L’attesa (2018)
È questo tempo
perso.
Mio tempo inutile,
morto. Tempo
che aspetto
e guardo
nel suo bianco vuoto.
Di come si trascina
di come chiede
e attende.
Voce che manca
voce che non risponde;
stanco mio tempo
assorto.
*
Era un minuto, o forse venti,
o un’ora o un giorno;
non sapevo.
Talmente dentro
quel minuto, quell’ora,
quel giorno,
da non avvertire
misure, confini,
momenti.
Si dilatava il tempo,
e più non esisteva tempo.
Oppure ero io che mi facevo
tempo; non so.
Note biografiche. Alida Airaghi (Verona, 1953) è una poetessa italiana. Si è laureata all'Università Statale di Milano in Lettere Classiche e ha insegnato a Zurigo per il Ministero Affari Esteri dal 1978 al 1992. Dal marito Siro Angeli ha avuto le figlie Daria e Silvia. Risiede a Garda dal 1993. Collabora a diverse riviste e blog italiani e svizzeri.
Per Alida Airaghi la poesia aiuta a superare il dolore. Esattamente come la musica, un’amicizia, un amore, o qualsiasi altra esperienza vivificante, può riuscire a curare le ferite, ad alleviare i momenti di infelicità. Ciascuno di noi si aggrappa a una zattera per salvarsi nella burrasca. Per me è sempre stato difficile giustificare la sofferenza, soprattutto quella innocente, immeritata. E più quella degli altri che la mia, al punto che spesso non riesco nemmeno a guardare un tg per intero, e mi accontento di leggere i titoli di testa. In questo senso, la voce dei poeti mi è servita, già dall’adolescenza, come un rifugio, un porto sicuro cui approdare. Se abbia la stessa funzione riparatrice, consolatrice, ma anche di supporto e rafforzamento a livello collettivo, sociale e politico, non sono sicura di poterlo affermare. In passato abbiamo avuto una poesia civile capace di catalizzare entusiasmi e ribellioni, una sorta di collante comune: dalla metà del secolo scorso credo che questa funzione venga svolta con più verità e successo dalle canzoni. La poesia più che mai rimane un’arte di nicchia, con scarsa capacità di pungolo e traino nella società.
Terribile pensare, o anche solo sperare, che la poesia debba avere qualche incarico. Oggi, poi… Basta la sua gratuità, il suo non essere a servizio d’altro che della sua stessa parola, a renderla rivoluzionaria. Non asservirsi, e non servire, nel senso di non essere serva. Mi pare già moltissimo, in una società che utilizza tutto e tutti per affermare la sua inscalfibile potenza masticatoria e omogeneizzante. Il rifiuto di “servire” scardina.
23 febbraio 2019
Ricordando Nunzia Binetti
Nascimento I
Hai parole che scivolano olio e ungerai un agosto,
mai stato più innocente prima nel palmo della mano
fra un odore di talco e nascimento. Non sai della stanchezza,
del tutto che ristagna nulla sai,
e non ti sfiora il dolore del disgiunto
per quel tuo stare nel ventre della madre.
Il bulbo interrato ti somiglia ancora non svetta ma avverrà.
E ti avvicini piano, non hai peso; sei il grammo tenero di vita
che domanda.
Pensieri in un bistrò
Ha l’eleganza del dolore per l’Esistere
l’ora del tè buono dal fumo anglofono
e quasi il suono di uno spartito/urlo.
Cerchi l’allodola nel prato o l’occhio di un Dio vedente.
Ma poi comprendi come si narrano miti d’eroi
o le favole.
E il tè che fuma …
l’occhio non vede allodole.
Si batte il petto il Nulla.
C’è una tristezza nelle camere d’albergo.
Qualcuno dopo poco le abbandona.
Hanno soffitti muti, odore di storie sfarinate.
Tonfo nel petto è il passo nudo
su una moquette d’ovatta.
Si stringe l’anima – gomitolo infeltrito –
posa la testa su un cuscino;
compagna, una valigia gialla
le ripete – il sonno sarà breve,
domani si riparte –
Nota biografica. Nunzia Binetti, nata in Puglia il 1950. Studi: Liceo Classico, Facoltà di Medicina, Facoltà di lettere moderne. Ha pubblicato sillogi poetiche: In ampia solitudine (CFR Edizioni 2010), Di rovescio (CFR Edizioni 2014), tradotta in lingua Francese da Roberto Cucinato, con copia depositata nella biblioteca Nazionale di Parigi e Il Tempo del male 2019 (Edizioni Terra d’Ulivi). Presente in numerose raccolte antologiche. Nella rivista serba “Bibliozona” della Biblioteca nazionale serba di Nis è stata pubblicata una sua poesia “Effetto placebo”, tradotta in lingua serba. Cofondatrice nel 2012 del Comitato Dante Alighieri di Barletta, e tutt’ora membro del suo consiglio direttivo. È impegnata anche nella promozione delle donne in arti e affari (già presidente della Sezione FIDAPA BPW di Barletta e membro della Task force Twinning BPW International). È stata premiata in concorsi letterari e poetici nazionali ed internazionali come “ Mercedes Mundula”2008, “ Giacomo Natta” 2012, “Un mondo di poesia “ 2013, “Premio Mesagne” 2016. È stata inoltre recensita in riviste letterarie: “I fiori del male” e “Capoverso”.
Per approfondire la poetica di Nunzia Binetti si veda l'articolo di Giorgio Linguaglossa in L'ombra delle parole
28 gennaio 2019
Ricordando Romano Pascutto
Omaggio ad una voce di spicco della poesia vernacolare del nostro Novecento
Mia Madre
Era impastata di silenzio
e di lacrime piante la notte
in segreto come sogni d'amore.
La mattina voltato il cuscino
ci comandava di vivere
con un forte triste sorriso.
Un momento
Se te sera i oci e te lassa un fià
che ‘l sol se puse come ‘na caressa
e el vento te sgarùfe lizier i cavèi,
cussì a oci seradi par un momento
te par che la vita sie distante da ti
come un fiume che passa voltra guaivo
fra do rive verde sensa mai romper.
Cussì el tempo e la storia, la tua
e quea de i altri, quea del mondo.
Apena te torna de qua a oci verti
de colpo ti sì ristrassinà drento
a tut un movimento, squasi pentì
de aver tentà sensa voèrlo da ti
de scampar via come un disertor.
(Se chiudi gli occhi e lasci un po'/ che il sole si appoggi come una carezza/ e il vento ti scompigli leggero i capelli/ così a occhi chiusi per un momento/ti sembra che la vita ti sia distante/ come un fiume che passa regolare/ fra due rive verdi/senza mai rompere./ Così il tempo e la storia, la tua/ e quella degli altri, quella del mondo./ Appena torni di qua a occhi aperti/ di colpo sei trascinato dentro/ a tutto un movimento, quasi pentito/ di aver tentato senza volerlo/ di fuggire da te come un disertore)
Putei del Po
Putei del Po
co' i oci sbigotìi,
la manine gelae,
i pinini scalsi...
Manine che no gà mai tocà un biscoto,
che mai gà zogà co' 'na baIa
che no fusse de strasse
e mai gà streto un zorno
che no fusse de fame.
Pinini scalsi su la neve
che se magna i didini,
su la tera che no gà che spini
anca se matura el formento
semenà da vostro pare,
bagnà da le làgreme de vostra mare.
Oci sbigotìi, pieni de paura
de l'aqua e de la vita
col so àrzene de miseria
che mai se rompe da secoli
Romparemo 'sto àrzene maledeto
a la furia de tante man,
che da secoli gà fame de tera;
ve vedaremo, putei, co' i oci che ride
come fioreti in t'el formento novo,
le manine ciapade in girotondo
soto i pomeri pieni de sol,
cantar la vòstra primavera.
(Bimbi del Po/ con gli occhi sbigottiti,/ le manine gelate,/ i piedini scalzi.../ Manine che non hanno mai toccato un biscotto/ che mai hanno giocato con una palla/ che non fosse di stracci/ e mai hanno stretto un giorno/ che non fosse di fame./ Piedini scalzi sulla neve/ che si mangia i ditini,/ sulla terra che non ha che spine/ anche se matura il frumento/ seminato da vostro padre,/ bagnato dalle lacrime di vostra madre./ Occhi sbigottiti, pieni di paura/ dell'acqua e della vita/ col suo argine di miseria/ che mai si rompe, da secoli./ Romperemo quest' argine maledetto/ con la furia di tante mani/ che da secoli hanno fame di terra;/ vi vedremo, bimbi, con gli occhi ridenti/ come fiorellini nel frumento nuovo,/ con le manine prese in giro tondo/ sotto i meli pieni di sole,/ cantare la vostra primavera.)
Biografia
Romano Pascutto è nato a S. Stino di Livenza il 7 luglio 1909 da una modesta famiglia di artigiani. A seguito dell'invasione austro-ungarica conseguente la "rotta di Caporetto" nell'ottobre del 1917, fu profugo a Firenze per due anni. All'affacciarsi del fascismo, si determinò in lui l'opposizione al regime mussoliniano. Imputato di sobillazione contro il fascismo, decise di cercare a Tripoli lo sbocco al suo bisogno di libertà e democrazia. Fu in Libia funzionario di Compagnie di Navigazione per 12 anni, fino al rientro coatto in patria nel 1943. La nascita della Resistenza all'occupante nazista lo vide in prima linea nelle brigate partigiane operanti nella bassa liventina. Visse i suoi giorni in totale simbiosi con la famiglia e il suo popolo, lasciando una traccia umana e poetica profondissima. Morì a Treviso l'8 aprile 1982.
L'opera
Romano Pascutto ha svolto un'intensa attività letteraria per tutto l'arco della sua vita. Poeta in lingua e in dialetto, ha lasciato poesie e poemetti, ma anche scritti teatrali, romanzi e racconti di efficacia narrativa. In particolare si segnalano i romanzi La lodola mattiniera (Padova 1977) e Il Viaggio (Padova 1979) e il volume di racconti, ispirati da un'esperienza come giudice popolare, Il pretore delle baracche (Milano 1973). Gran parte dell'opera di Pascutto è raccolta nell'Opera Omnia edita dalla Marsilio Editori.
Nella poesia di Pascutto convivono due istanze prioritarie, che contrassegnano la sua vita e il suo fare poetico: la passione umana e civile e la moralità operativa. Partito da posizioni letterarie di fiancheggiamento politico e di impegno nel campo della sinistra, Pascutto ha via via affinato la sua poetica anche aprendosi all'introspezione intimista, all’allusività simbolica, alla satira epigrammatica, sempre però fondate su un realismo espressionistico-narrativo. Questo percorso è proprio di tutta la produzione poetica di Pascutto, in dialetto e in lingua.
segnalato da Alberto Camata
07 gennaio 2019
Ricordando Giorgio Gaber
Non insegnate ai bambini
Non insegnate ai bambini
non insegnate la vostra morale
è così stanca e malata
potrebbe far male
forse una grave imprudenza
è lasciarli in balia di una falsa coscienza.
Non elogiate il pensiero
che è sempre più raro
non indicate per loro
una via conosciuta
ma se proprio volete
insegnate soltanto la magia della vita.
Giro giro tondo cambia il mondo.
Non insegnate ai bambini,
non divulgate illusioni sociali
non gli riempite il futuro
di vecchi ideali,
l’unica cosa sicura è tenerli lontano
dalla nostra cultura.
Non esaltate il talento
che è sempre più spento
non li avviate al bel canto, al teatro
alla danza,
ma se proprio volete
raccontategli il sogno
di un’antica speranza.
Non insegnate ai bambini,
ma coltivate voi stessi il cuore e la mente
stategli sempre vicini
date fiducia all’amore
il resto è niente.
Giro giro tondo cambia il mondo.
Giro giro tondo cambia il mondo.
Video. Gaber canta "Non insegnate ai bambini"
Giorgio Gaber. Non insegnate ai bambini è un brano scritto e interpretato da Giorgio Gaber, contenuto nell’album postumo Io non mi sento italiano, pubblicato nel 2003. Morto poche settimane prima dell’uscita del disco, il cantautore milanese ci ha consegnato quello che suona come il suo testamento: artistico, ma anche sociale, politico, umano. La canzone, scritta con l’amico e collega di tante avventure teatrali Sandro Luporini, doveva far parte del suo nuovo spettacolo, mai allestito a causa della morte del Signor G.
Lunghissima e ricca è stata la carriera del milanese doc Giorgio Gaber: dal Signor G. alle canzoni in vernacolo, dal jazzcabaret in coppia con Enzo Jannacci, alla lunga esperienza del Teatro Canzone, fino all’ultima stagione, sempre più cupa ma sempre attraversata dall’utopia e dalla speranza. Giorgio Gaber non è stato solo un grande artista (uno dei pochi del ’900 che i giovani e i giovanissimi continuano ad ascoltare), ma un intellettuale “non schierato”, “non organico a niente”, sempre “fuori dal coro”. Fustigatore dei tanti vizi della borghesia italiana e dei falsi miti della Sinistra. Ma Giorgio Gaber - come Fabrizio De André ed Enzo Jannacci - è stato anche un poeta, cantore e difensore degli ultimi, degli sconfitti, dei più piccoli. E, come leggete in questa pagina, anche dei bambini. Riascoltare Gaber è un esercizio che mi sento di consigliare a tutti: una canzone al giorno, leva (un po’) di ipocrisia di torno. Effe Emme
20 dicembre 2018
Ricordando Jean-Claude Izzo
Spiaggia del Profeta
Qui si sono fermati.
Prima la ragazza dagli occhi grigio-verdi
Dei mari del Nord
E dal sorriso maturato sugli argini del Nilo
Poi l’amico
Il poeta dei Paesi Alti
Attento ai bisbigli dei traghettatori
Sui sentieri aridi dell’esilio
Infine il più vecchio
Uomo dalle suole di vento
Tanto Afgano quanto Mongolo
portato da mondi di ieri che ha intravisto
Spiaggia del Profeta
Hanno portato i loro passi
Verso il sole al tramonto
Un’onda è arrivata a lambire i loro piedi
Benedizione del Profeta
Profeta anonimo
Di coloro che credono
Alle verità della bellezza.
Traduzione di Annalisa Comes
Ascolta la poesia recitata in musica da Gianmaria Testa
Nota biografica. Jean-Claude Izzo nacque a Marsiglia nel 1945 da Gennaro Izzo, un immigrato italiano originario della provincia di Salerno, e da Isabelle, una casalinga francese, figlia di immigrati spagnoli. È morto di cancro nel 2000. Per conoscerlo basta la sua autobiografia a tracciarne le sensibilità e l'impegno civile.
Appartengo al Mediterraneo. Questo mare lo vivo, lo respiro, lo sogno, lo penso da un solo punto di vista. Quello di Marsiglia. La città dove sono nato per un caso dall’esilio di mio padre, napoletano e da mia madre, andalusa. Rivendicando tale appartenenza, rientro – ne ho piena coscienza e voi avete il diritto di saperlo – nelle categorie delle nuove « classi pericolose », così come sono definite da un importante rapporto (importante per l’avvenire dell’Europa) della Banca Mondiale. E poi ancora, arbitrari, fanatici, violenti. E anche, evidentemente, miserabili.
Questo rapporto dice che siamo, noi del Mediterraneo, numerosi, indisciplinati certo migranti. Sempre in questo rapporto, la Banca Mondiale suggerisce all’Europa di erigere fra il Nord e il Sud, un confine moderno, come un ricordo della frontiera fra l’Impero Romano e i Barbari. Domani, quando il secolo si sarà spostato dalle parti di Maastricht e applicheranno allora le direttive della Banca Mondiale, parafrasando Erri De Luca, potrò allora cominciare un romanzo con queste parole : «Appartengo a un paese e a un mare barbari. Sì, forse, sfortunatamente.
Eppure, dritto in piedi davanti alla diga Santa-Maria, con il volto verso il largo, e lasciando vagare i miei occhi sull’orizzonte di carghi in partenza, persisto nel mio punto di vista. Da Marsiglia, nel Mediterraneo. Sono esistite Alessandria e Tangeri.
Marsiglia esiste ancora oggi. Sola, unica dunque. E bene o male, ancora in piedi. Ultima sopravvivenza degli incroci di uomini e di culture. E di fronte alle fratture, alle frantumazioni, alle frammentazioni che hanno caratterizzato e caratterizzano la storia di questo mare e delle sue due sponde, credo che il punto di vista di Marsiglia sia la sola risposta moderna alle nostre aspirazioni. Bisognerebbe rileggere L’Esilio di Elena di Albert Camus.
Come un breviario : «In questi luoghi si può comprendere che se i Greci sono arrivati alla disperazione, è stato sempre attraverso la bellezza, e in ciò che vi è di opprimente. In questa infelicità dorata, culmina la tragedia. Il nostro tempo, al contrario, ha nutrito la sua disperazione nella bruttezza e nelle convulsioni. È per questo che l’Europa sarebbe ignobile, se il dolore potesse mai esserlo». Era il 1948.
Cinquant’anni dopo, lo riaffermo, se c’è un avvenire in Europa, una bellezza per l’avvenire, è in quello che Edouard Glissant chiama « la creolità mediterranea ». Questo sguardo altro sul mondo. È tutto in questo. Fra il vecchio modo di pensare, economico, separatista, segregazionista (della Banca Mondiale e dei capitali privati internazionali) e una nuova cultura, diversa, meticcia, in cui l’uomo resta padrone del suo tempo e del suo spazio geografico e sociale.
Appartengo al Mediterraneo, dicevo. Tengo per mano le mie due sponde. E Oriente e Occidente. Mi dilanieranno, forse, ma l’Europa non mi farà mai abbandonare una per l’altra. Perché rivendico l’insegnamento unico di questo mare: più ci si arricchisce di culture, più il pensiero si allarga, più il mondo si apre a noi, e più l’altro – l’altro mediterraneo, africano, asiatico e latino-americano – ci è vicino. Fratello umano. È così che penso, come il bastardo di una storia cominciata qui, a Marsiglia, duemilaseicento anni fa. Pubblicato in «Télérama» nel 1998, traduzione di Annalisa Comes
16 novembre 2018
Ricordando Roberto Vecchioni
Vincent
Guarderò le stelle
com’ erano la notte ad Arles
appese sopra il tuo boulevard;
io sono dentro agli occhi tuoi
Vincent.
Sognerò i tuoi fiori
narcisi sparpagliati al vento
il giallo immenso e lo scontento
negli occhi che non ridono
negli occhi tuoi,
Vincent.
Dolce amico mio
fragile compagno mio
al lume spento della tua pazzia
te ne sei andato via,
piegando il collo
come il gambo di un fiore
scommetto un girasole.
Sparpagliato grano,
pulviscolo spezzato a luce
e bocche aperte senza voce
nei vecchi dallo sguardo che non c’è
poi le nostre sedie
le nostre sedie così vuote
così “persone”
così abbandonate
e il tuo tabacco sparso qui e là.
Dolce amico
fragile compagno mio
che hai tentato sotto le tue dita
di fermarla, la vita:
come una donna amata alla follia
la vita andava via:
e più la rincorrevi
e più la dipingevi a colpi rossi
gialli come dire “Aspetta!”,
fino a che i colori
non bastaron più…
e avrei voluto dirti Vincent,
questo mondo non meritava
un uomo bello come te.
Guarderò le stelle
la tua, la mia metà del mondo
che sono le due scelte in fondo:
o andare via o rimanere via.
Dolce amico mio,
fragile compagno mio,
io, in questo mare,
non mi perdo mai;
ma in ogni mare sai
“tous le bateaux
vont à l’hazard pour rien”.
Addio, da Paul Gauguin.
(Roberto Vecchioni-Don McLean)
per approfondire si legga: Esegesi da un testo di Roberto Vecchioni
Nota biografica. Roberto Vecchioni (1943) è un cantautore, paroliere, scrittore, poeta, e insegnante. È considerato fra i cantautori italiani più importanti, influenti e stilisticamente eterogenei: nella sua opera, è ricorrente l'intrecciarsi del proprio essere con i più svariati miti della storia, della letteratura o dell'arte, questi ultimi presi in prestito, non tanto per descriverne le gesta, piuttosto come espediente per rappresentare una parte di sé. Nei suoi testi sono evidenti le tematiche presenti nella sua produzione da cantautore: la nostalgia per il passato, il tema del doppio, l'uso della storia come metafora del presente (emblematica è, a questo proposito, La battaglia di Maratona incisa nel 1968 da Lo Vecchio), con evidenti influenze del lavoro letterario di Jorge Luis Borges. La sua attività di cantautore si intreccia con quella di scrittore. Nel 1983 esce, come allegato ad un'edizione limitata dell'album Il grande sogno, un volume omonimo edito da Milano Libri, che contiene poesie, racconti e testi per canzoni. Il suo secondo libro è del 1996, una raccolta di racconti intitolata Viaggi del tempo immobile (Einaudi). Nel 1998 cura la voce Canzone d'autore dell'Enciclopedia Treccani. Il suo lavoro s'intreccia con la musica nel 1999 quando, sostenuto dal Ministero della Pubblica Istruzione, organizza un giro presso le Università e i licei d'Italia per un ciclo di conferenze sulla Storia letteraria della canzone italiana. Tiene dal 2006 un corso di lezioni dal tema: "Testi letterari in musica" all'Università di Pavia ed un corso di lezioni intitolato "Laboratorio di Scrittura e Cultura della Comunicazione" presso La Sapienza di Roma.
8 novembre 2018
Ricordando Giorgio Caproni
Perché restare
Chi sia stato il primo, non
è certo. Lo seguì un secondo. Un terzo.
Poi, uno dopo l’altro, tutti han preso la stessa via.
Ora non c’è più nessuno.
La mia
casa è la sola
abitata.
Son vecchio
Che cosa mi trattengo a fare,
quassù, dove tra breve forse
nemmeno ci sarò più io
a farmi compagnia?
Meglio – lo so – è ch’io bada
prima che me ne vada anch’io.
Eppure, non mi risolvo. Resto.
Mi lega l’erba. Il bosco.
Il fiume. Anche se il fiume è appena
un rumore ed un fresco
dietro le foglie.
La sera
siedo su questo sasso, e aspetto.
Aspetto non so che cosa, ma aspetto.
Il sonno. La morte direi, se anch’essa
da un pezzo – già non se ne fosse andata
da questi luoghi.
Aspetto
e ascolto.
(L’acqua,
da quanti milioni d’anni, l’acqua,
ha questo suo stesso suono
sulle sue pietre?)
Mi sento
perso nel tempo.
Fuori
del tempo, forse.
Ma sono
con me stesso. Non voglio
lasciare me stesso uscire
da me stesso come,
dal sotterraneo
il grillotalpa in cerca
d’altro buio.
Il trifoglio
della città è troppo
fitto. Io son già cieco.
Ma qui vedo. Parlo.
Qui dialogo. Io
qui mi rispondo e ho il mio
interlocutore. Non voglio
murarlo nel silenzio sordo
d’un frastuono senz’ombra
d’anima. Di parole
senza più anima.
Audio. Perché restare di Giorgio Caproni - Voce di Sergio Carlacchiani
Nota biografica. Giorgio Caproni nacque a Livorno il 7 gennaio 1912 ed è morto a Roma il 22 gennaio 1990. Nel marzo del 1922 la famiglia si trasferì a Genova dove il giovane terminò gli studi e frequentò la Facoltà di Magistero, dedicandosi contemporaneamente allo studio del violino e seguendo le lezioni di filosofia di Giuseppe Rensi. Nel 1936 pubblicò la sua prima raccolta di poesie. Commesso, impiegato, e infine maestro elementare, nel 1938 si trasferì con la moglie Rina, a Roma, dove continuò a fare il maestro fino al 1973, vivendo appartato e tenendosi lontano dai salotti letterari. Dopo la guerra e la resistenza, spinto anche da necessità d' ordine economico, collaborò a numerose riviste come "L'Unità", "Mondo operaio", "Avanti!","Italia socialista", "Il lavoro nuovo", "La fiera letteraria", ecc, con articoli, racconti, traduzioni. Intensa fu infatti anche la sua attività di traduttore di prosa e di poesia soprattutto dal francese. Tradusse tra l'altro Il tempo ritrovato di Proust, I fiori del male di Baudelaire, Morte a credito di Celine, Bel-ami di Maupassant, e poi Genet e Apollinaire. Vinse diversi premi letterari fin dalla pubblicazione delle Stanze della funicolare (premio Viareggio), ma il vero successo gli arrise solo nel 1975, con Il muro della terra (premio Gatto e premio Jean Malrieu E'tranger, per il miglior libro tradotto in francese), e successivamente con il Franco cacciatore, che vinse i premi Montale e Feltrinelli. Giorgio Caproni ricevette nel 1984 la laurea honoris causa in Lettere e Filosofia presso l'Università di Urbino e nel 1985 la cittadinanza onoraria di Genova, città che influenzò profondamente il suo spirito e la sua produzione poetica. Nel 1986 ottenne i premi Chianciano, Marradi, Campana e Pasolini, per la raccolta Il conte di Kevenhuller. Da un punto di vista stilistico, le poesie di Caproni sono riconducibili all’ambito dell'ermetismo, ma con forti echi del vocianesimo ligure, che lo avvicinano ad autori coevi quali Sbarbaro e Boine. La raffinata ricercatezza metrico-stilistica delle poesie di Giorgio Caproni si accompagna sempre ad una grande immediatezza e ingenuità dei sentimenti cantati. Una raccolta di poesie di Caproni come quella sopra citata esprime bene il caratteristico tono medio delle sue poesie, che mescola la poesia classica (con i suoi metri e i suoi generi tradizionali) ad linguaggio di tenore quasi popolareggiante. Appartiene all’ultima fase della sua poesia una raccolta di poesie di Giorgio Caproni uscita postuma (1991) a cura di G. Agamben, “Res amissa”in cui il poeta insiste di più su di un tema, già in precedenza presente nella sua opera, ma che col tempo si fa più centrale, ossia il tema del linguaggio come strumento carente e insidioso, in quanto inadeguato a rappresentare la realtà. Presentato da Daniela Manzini
8 ottobre 2018
Ricordando Omero
Dopo il naufragio
[…] e Ulisse fu desto.
E si sedette: e in mente gli errarono questi pensieri:
«Povero me! Di che gente sarò capitato al paese?
Forse feroci selvaggi saranno, nemici del giusto,
od ospitali, e avranno l’ossequio dei Numi nel cuore?
Giunto all’orecchio m’è di femmine un grido: fanciulle
sembrano: son di certo vicino ad un luogo abitato…
[…] similmente Ulisse, fra tante leggiadre fanciulle
si presentò, cosí nudo com’era; ma farlo era d’uopo.
Orrido apparve ad esse, bruttato cosí di salmastro;
e sbigottite si sperser chi qua chi là per la spiaggia.
Sola rimase la figlia d’Alcinoo: ché Atena le membra
le preservò dal terrore, coraggio nell’alma le infuse.
Ferma gli stette dinanzi…
[…] E le rivolse queste parole soavi ed accorte:
«Io ti scongiuro, o signora. Sei forse una Diva? O una donna?
Ieri scampai, dopo venti giornate, dagli ebbri marosi;
mi trascinarono, tutto quel tempo, dall’isola Ogigia,
flutti d’irose procelle. Qui un dèmone adesso mi spinge,
perché nuove sciagure sopporti anche qui: ché non credo
siano finite; ma molte tuttor me ne serbano i Numi.
Abbi pietà. Signora, di me. Dopo tanti travagli
tu sei la prima che incontro, nessuno ho pur visto degli altri
abitatori di questa città, di questa contrada.
Mostrami, via, la città, dammi un cencio, ch’io possa coprirmi,
se, qui venendo, un panno recavi da involger le vesti.
[…] E gli rispose cosí Nausicaa dal candido braccio:
«O straniero, davvero né tristo tu sembri né stolto;
ma la felicità partisce fra gli uomini Giove
sire d’Olimpo, a chi piú gli piace; ora al buono, ora al tristo.
A te diede cordogli, cordogli tu devi patire.
Ma or che in questa terra, che in questa città sei pur giunto,
a te non mancheranno né vesti, né nulla di quanto
porger conviene ad un misero, oppresso dai mali, che prega.
Ti mostrerò la città, saprai quale nome han le genti.
Di questo suolo, di questa città son signori i Feaci;
e la figliuola io sono d’Alcinoo magnanimo cuore,
che dei gagliardi animosi Feaci le sorti governa».
Disse; e la voce levò per chiamare le ancelle vezzose:
«State un po’ ferme! Cosí fuggite alla vista d’un uomo?
Immaginate forse ch’ei nutra sinistri pensieri?
Non c’è, né sarà mai nel mondo quel tristo mortale
che della gente feacia pervenga alla terra, e minacci
l’impeto ostile: ché troppo siam cari ai Beati Celesti,
ed abitiamo lontani da tutto, ai confini del mondo,
tra l’estuare infinito dei flutti; e nessuno ci cerca.
Ma questo misero è giunto qui naufrago errante; e dobbiamo
prenderne cura adesso; perché forestieri e mendichi
tutti li manda Giove: ché poi si contentan di poco.
Presto, fanciulle, dunque, recategli cibo e bevande,
fategli un bagno sul greto del fiume, al riparo dei venti».
(Odissea, Canto VI, traduzione di Ettore Romagnoli, Zanichelli, 1923)
Omero, qui sopra nella versione del grande grecista Romagnoli, ci racconta un salvataggio: un naufrago raccolto sulla spiaggia, rivestito, rifocillato, accolto nella propria casa. Un fatterello di cronaca fantastica, per niente attuale, anzi, vecchio di circa tremila anni, anno più anno meno. Non mi soffermo, per ovvie ragioni di spazio, su Omero e la sterminata Questione omerica. Ma una cosa va detta, perché su questa concordano ormai tutti i filologi e gli studiosi del mito, e cioè che l’Odissea rappresenta la sorgente, l’alba, la radice dell’Occidente. Del nostro modo di vivere, di conoscere, di pensare. Lo stratega e geniale costruttore del cavallo Ulisse, l’incallito viaggiatore Odisseo, l’astuto Nessuno che beffa Polifemo, sono sempre uno, e in quell’uno noi contemporanei ci specchiamo. Odisseo è in verità il nostro Adamo, “il primo di noi”, cioè il primo uomo dell’Occidente. Nel bene e nel male. Ma Odisseo è anche il naufrago. Devo ai coraggiosi ragazzi di Lucera (Foggia) animatori del Festival della Letteratura Mediterranea giunta quest’anno alla XVI edizione, la mia personale riscoperta di questo brano dell’Odissea. Dopo il naufragio – uno dei tanti in cui si imbatte – Ulisse giace ignudo, quasi morto sulla spiaggia della terra dei Feaci. Lo soccorrerà una ragazza pura, disinibita, anticonformista:
“una fanciulla uguale, per indole e aspetto, a una Dea.
Era Nausicaa, la figlia d’Alcinoo magnanimo cuore”
Ecco, Omero ci racconta un salvataggio. E badate, non solo Odisseo è uno di noi, ma il mare dove avviene quell’antico naufragio è il mare nostrum, il medesimo mare dove annegano ogni giorno i profughi del terzo millennio. E l’isola del popolo felice dei Feaci? La maggioranza degli storici, geografi e filologi la identificano con l’isola di Ischia. Insomma, questa storia ci riguarda molto da vicino.
Incontrare “Nausicaa dal candido braccio” fa venir voglia di rileggere tutta l’Odissea. O di leggerla per la prima volta: non è vero che è difficile, anzi, è una emozionante avventura. Dal rinascimento ad oggi si contano decine di traduzioni in italiano e sono in commercio varie edizioni tra cui scegliere. Per chi volesse invece approfondire la figura del nostro progenitore Odisseo, consiglio un libro splendido: Piero Boitani, L’ombra di Ulisse. Figure di un mito, Bologna, il Mulino, 2012. Effe Emme, pubblicato in Madrugada 111
9 luglio 2018
Ricordando Iosif Brodskij
Tratto da: Dall’esilio, traduzione di Gilberto Forti e G. Buttafava, Milano, Adelphi 1988
“Un’opera d’arte, in special modo un’opera letteraria e una poesia in particolare, si rivolge all’uomo tête-à–tête, stabilendo con lui rapporti diretti, senza intermediari di sorta. Nella storia della nostra specie, nella storia dell’ homo sapiens, il libro è un fenomeno antropologico analogo in sostanza alla invenzione della ruota.”
“Ciò che si suole chiamare volgarmente voce della Musa è in realtà il dettato della lingua; che non è la lingua a essere un suo strumento, ma lui stesso è il mezzo di cui la lingua si serve per continuare a esistere. E la lingua… non è capace di una scelta etica. La dipendenza [del poeta dalla lingua] è assoluta, dispotica; ma è anche liberatoria. Infatti, pur essendo sempre più vecchia dello scrittore, la lingua possiede ancora la smisurata energia centrifuga che le è conferita dal suo potenziale temporale, cioè da tutto il tempo che ha davanti a sé. E questo potenziale è determinato non tanto dall’importanza quantitativa della nazione che parla (benché sia determinato anche da questa) quanto dalla qualità della poesia scritta in questa lingua. Basterà ricordare gli antichi autori greci o latini; basterà ricordare Dante. E quello che oggi si va scrivendo in russo o in inglese, per esempio, garantisce l’esistenza di queste lingua anche nel corso del prossimo millennio. Il poeta, ripeto, è il mezzo di cui la lingua si serve per esistere.”
“Chi scrive una poesia, però, non la scrive per l’ambizione di essere ricordato dai posteri, anche se spesso coltiva la speranza che una poesia gli sopravviva, sia pure per poco. Chi scrive poesia la scrive perché la lingua gli suggerisce o semplicemente gli detta la riga seguente. Quando comincia a scrivere una poesia, di regola il poeta non sa come andrà a finire… Ed è il momento in cui il futuro della lingua interviene nel proprio presente e lo invade.”
“Esistono, come si sa, tre modi di cognizione: quello analitico, quello intuitivo e il modo noto ai profeti biblici, la rivelazione. Ciò che distingue la poesia dalle altre forme letterarie è che usa insieme tutti e tre questi modi (orientandosi prevalentemente verso il secondo e il terzo).
Tutti e tre sono infatti presenti nella lingua… Chi scrive una poesia la scrive soprattutto perché l’esercizio poetico è uno straordinario acceleratore della coscienza, del pensiero, della comprensione dell’universo. Quando si è provata una volta questa accelerazione non si è più capaci di rinunciare all’avventura di ripetere questa esperienza.”
Iosif Brodskij, (Leningrado, 24 maggio 1940 – New York, 28 gennaio 1996), è stato un poeta, saggista e drammaturgo russo naturalizzato statunitense. Brodskij fu insignito del Premio Nobel per la letteratura nel 1987 e nel 1991 fu nominato poeta laureato (United States Poet Laureate). Scrisse principalmente in russo, fatta eccezione per i saggi, che scrisse in inglese. È considerato uno dei maggiori poeti russi del XX secolo. È stato ironicamente notato che "Si ha l'impressione che a Iosif Brodskij russo sia succeduto un Joseph Brodsky statunitense e i due abbiano felicemente convissuto per un quarto di secolo, dividendosi i compiti: a Brodskij la poesia e a Brodsky i saggi e la critica" Le opere di questo periodo appariranno più tardi divise in due raccolte: una comprende i componimenti dal 1964 al 1971 (Fine della Belle Époque) e l'altra dal 1971 al 1972 (Parte del discorso). Motivo di questa divisione non furono tanto ragioni autobiografiche (l'emigrazione, peraltro sminuita nella sua importanza da Brodskij) ma l'evoluzione della sua linea poetica visibilmente mutata nei temi e nello stile.
23 giugno 2018
Ricordando Wisława Szymborska
Contributo alla statistica
Su cento persone:
che ne sanno sempre più degli altri
- cinquantadue;
insicuri a ogni passo
- quasi tutti gli altri;
pronti ad aiutare,
purché la cosa non duri molto
- ben quarantanove;
buoni sempre,
perché non sanno fare altrimenti
- quattro, be’, forse cinque;
propensi ad ammirare senza invidia
- diciotto;
viventi con la continua paura
di qualcuno o qualcosa <
- settantasette;
dotati per la felicità,
- al massimo poco più di venti;
innocui singolarmente,
che imbarbariscono nella folla
- di sicuro più della metà;
crudeli,
se costretti dalle circostanze
- è meglio non saperlo
neppure approssimativamente;
quelli col senno di poi
- non molti di più
di quelli col senno di prima;
che dalla vita prendono solo cose
- quaranta,
anche se vorrei sbagliarmi;
ripiegati, dolenti e senza torcia nel buio
- ottantatré
prima o poi;
degni di compassione
- novantanove;
mortali
- cento su cento.
Numero al momento invariato.
Nota biografica. Wisława Szymborska (1923-2012), nata a Cracovia, in Polonia. La sua infanzia e la sua adolescenza sono funestate dallo scoppio della seconda guerra mondiale. La giovane Wisława è costretta a proseguire gli studi in clandestinità. Nel 1943, grazie al lavoro come dipendente delle ferrovie, evita la deportazione in Germania in qualità di lavoratrice forzata. Nello stesso periodo inizia anche la sua carriera artistica come illustratrice. Si iscrive all’università nel 1945, ma non terminerà mai gli studi per il sopraggiungere di seri problemi economici. Ha però la fortuna di incontrare il saggista e poeta Czeslaw Milosz, Premio Nobel per la letteratura nel 1980, che la coinvolge nella vita culturale della capitale polacca. La sua prima poesia, Cerco una parola, viene pubblicata nel 1945. Inizialmente tutti i suoi scritti subiscono la stessa sorte, in quanto devono passare il vaglio della censura. La sua prima vera e propria raccolta poetica - Per questo viviamo -, sarà pubblicata solo nel 1952. Eppure Wisława, come molti altri intellettuali in quel periodo, abbraccia l’ideologia socialista in maniera ufficiale, tramite cioè la partecipazione attiva alla vita politica del suo paese. Aderisce inoltre al Partito Operaio Polacco, rimanendone un membro fino al 1960. Più tardi prende le distanze da queste posizioni ideologiche, che lei stessa definisce «un peccato di gioventù» e rende pubbliche le sue riflessioni in una raccolta di poesie, Domande poste a me stessa, del 1954. Nonostante il suo allontanamento definitivo dal partito sia datato 1960, già prima si mette in contatto con i dissidenti e rinnega quanto scritto nelle sue prime due raccolte poetiche. Le sue poesie, spesso molto brevi, sono costituite da versi liberi, scritti in maniera semplice e con una scelta accurata delle parole. Wisława Szymborska utilizza l’arma dell’ironia e del paradosso per affrontare problemi etici e umani di ampio respiro che diventano motivo di denuncia per lo stato delle cose. Anche se molte delle sue poesie non superano la lunghezza di una pagina, spesso toccano argomenti di respiro etico che riflettono sulla condizione delle persone, sia come individui che come membri della società umana. Non mancano, d’altra parte, aperte denunce di carattere universale sullo stato delle cose, specie a partire dagli anni Ottanta quando si intensifica la sua attività contestatrice, impegnandosi a favore del sindacato Solidarnosc. Nel 1996 viene insignita del Premio Nobel per la letteratura. La motivazione che accompagna il premio recita: «per una poesia che, con ironica precisione, permette al contesto storico e biologico di venire alla luce in frammenti d’umana realtà». Wisława Szymborska muore nel 2012 nella sua Cracovia. In Italia le sue opere sono state pubblicate, prima da Scheiwiller editore, quindi da Adelphi. Tra le altre: Vista con granello di sabbia (1996); Uno spasso (2003); Appello allo Yeti (2005); Sale (2005); Grande numero (2006) tutte da Scheiwiller; La gioia di scrivere. Tutte le poesie (1945-2009): Adelphi, 2009. Pubblicato in Madrugada 110
22 giugno 2018
Ricordando Afro Women Poetry
I see a Woman, a wonderful woman…every day in the mirror I see a woman.
Questo ritornello mi accoglie al primo piano di Villa Salom a Lion di Albignasego, in un caldo tardo pomeriggio di giugno. Sono qui dalle quattro e mezza, ad accogliere la gente che accorre a sentire la poesia africana, al termine ci sarà una cena all’aperto, ma per ora è la poesia che conta.
Afro Women Poetry è un progetto nato dall’iniziativa di Antonella Sinopoli, giornalista, direttrice della testata online e associazione di promozione dei diritti umani “Voci Globali”. Dal 2010 vive in Ghana, dove, oltre a scrivere, gestisce un Bed&Breakfast, denominato Wild Camp, col marito.
Antonella da un anno va in giro per il Ghana e il vicino, più piccolo, Togo, dove è in corso una rivolta sociale, va in giro alla ricerca di poetesse, di voci femminili, disposte a condividere i loro versi. Li potete trovare su afrowomenpoetry.net.
Io ho avuto la fortuna di sentirle declamate. Sono poesie che non parlano d’amore, se non come violenza; parlano, invece, di impegno sociale e di sessualità femminile, rompendo i taboo, rompendo lo stereotipo della donna africana silenziosa e sottomessa. Sono poetesse delle più diverse età ed estrazione sociale, c’è anche un ex ministra del Togo. Chi può invita Antonella a pranzo, più spesso le dà appuntamento al mercato. E’ facile riconoscere Antonella in un mercato del Ghana, è l’unica bianca.
Afro Women Poetry si prefigge lo scopo di iniziare a rompere i pregiudizi che sono radicati in noi occidentali riguardo al continente africano. La narrazione sta cambiando: da continente da aiutare, l’Africa si trasforma nell’immaginario comune in terra di investimenti. Ma dove sta la verità? Chiaramente è difficile stabilirlo solo sentendo poesie, ma è un buon inizio. Questo tipo di poesia ha il potere di far capire che la condizione della donna può migliorare se diamo loro una voce.
Donna, ti sogno nuda
Sogno i tuoi seni neri sgorganti dal petto
Sogno il tuo bel corpo scolpito nella perfezione di un sogno
Nonostante questo corpo bello e affascinante
Perché questo mondo è fatto così?
E perché non è perfetto?
Accuso la sorte riservata alla donna.
(Il destino della Donna, Djeri Wapondi)
Un altro tema è la paura di mostrare la propria bellezza africana. E’ diffuso un modello di bellezza occidentale, capelli lisci, pelle bianca, cui le donne africane si sforzano spesso di assomigliare, grazie a piastre per capelli, e creme sbiancanti per la pelle, vendute in un giro d’affari di milioni di dollari.
Poi c’è la solitudine di una vedova, di cui i figli, ormai lontani, sembrano essersi dimenticati. E’ un tema universale, non solo africano, ma in Africa assume un colore particolare, in quanto le vedove sono accomunate da una sorta di malocchio che cade su di loro.
L’ultima poesia parla di violenza domestica, un tema che rende sorelle tutte le donne, in quanto in Italia c’è un femminicidio ogni sessanta ore. Un verso crudele, inascoltabile e purtroppo universale.
“Ti picchio perché ti amo”.
Ferisce le orecchie. Ci lasciamo con la canzone dell’inizio.
I see a woman, a wonderful woman.
scritto da Cecilia Alfier
16 aprile 2018
Ricordando Segen
Tempo sei maestro
Tempo sei maestro
per chi ti ama e per chi ti è nemico,
sai distinguere il bene dal male,
chi ti rispetta
e chi non ti dà valore.
Senza stancarti mi rendi forte,
mi insegni il coraggio,
quante salite e discese abbiamo affrontato,
hai conquistato la vittoria
ne hai fatto un capolavoro.
Sei come un libro, l’archivio infinito del passato
solo tu dirai chi aveva ragione e chi torto,
perché conosci i caratteri di ognuno,
chi sono i furbi, chi trama alle tue spalle,
chi cerca una scusa,
pensando che tu non li conosci.
Vorrei dirti ciò che non rende l’uomo
un uomo
finché si sta insieme tutto va bene,
ti dice di essere il tuo compagno d’infanzia
ma nel momento del bisogno ti tradisce.
Ogni giorno che passa, gli errori dell’uomo sono sempre di più,
lontani dalla Pace,
presi da Satana,
esseri umani che non provano pietà
o un po’ di pena,
perché rinnegano la Pace
e hanno scelto il male.
Si considerano superiori, fanno finta di non sentire,
gli piace soltanto apparire agli occhi del mondo.
Quando ti avvicini per chiedere aiuto
non ottieni nulla da loro,
non provano neanche un minimo dispiacere,
però gente mia, miei fratelli,
una sola cosa posso dirvi:
nulla è irraggiungibile,
sia che si ha tanto o niente,
tutto si può risolvere
con la fede in Dio.
Ciao, ciao
Vittoria agli oppressi
Nota biografica. Tesfalidet Tesfom è il vero nome di Segen il migrante eritreo morto il giorno dopo il suo sbarco a Pozzallo del 12 marzo dalla nave Proactiva della ong spagnola Open Arms. Dopo aver lottato tra la vita e la morte all’ospedale maggiore di Modica nel suo portafogli sono state ritrovate delle bellissime e strazianti poesie. da vita.it del 10 aprile 2018 , segnalato da Alessandro Bruni
27 marzo 2018
Ricordando Rainer Maria Rilke
Sii paziente con tutto ciò che è insoluto
Sii paziente con tutto ciò che è insoluto
nel tuo cuore…
Cerca di amare le domande in sé…
Non cercare adesso le risposte,
che non possono essere date
perché non saresti capace
di viverle.
E il punto è
di vivere ogni cosa.
Vivi le domande ora.
Forse in futuro
gradualmente
senza farci caso,
un giorno lontano
ne vivrai le risposte.
Nota biografica. Rainer Maria Rilke (Praga 4 dicembre 1875), di minoranza praghese di lingua tedesca, viene educato all'accademia militare di St. Pölten fino a 15 anni, dove soffre atrocemente. Ritenuto inadatto alla disciplina militare torna a Praga dove si iscrive a Giurisprudenza, ma poi si reca a Monaco dove frequenta i corsi di storia dell'arte e letteratura. Si reca a Parigi dove vivrà un anno in condizioni di miseria. Non si laurea, conosce Andreas-Salomé, una intellettuale che aveva significato non poco per Nietzsche, che lo introduce in tutti gli ambienti dell'aristocrazia “cosmopolita e letteraria”. Viaggia in Russia dove conosce Tolstoj e Pasternak e di cui è entusiasta. Sposa la scultrice Clara Westhoff, allieva di Rodin, da cui riceve un lavoro come suo segretario. Nel 1912 (a 37 anni) la principessa Maria von Thurn mette a sua disposizione il castello di Duino vicino a Trieste dove scrive le Elegie Duinesi e i Sonetti a Orfeo (1922). La guerra e il disfacimento dell'Europa lasciano affranto il poeta nella sua esasperata ricerca della consistenza delle cose, delle parole, dell'amore per l'essere umano. Muore a Valmont-Montreux il 29 dicembre 1926. scritto da Andrea Gandini
26 marzo 2018
Ricordando Chandra Livia Candiani
La vita nuova
La vita nuova
arriva taciturna
dentro la vecchia vita
arriva come una morte
uno schianto
qualcuno che spintona cosi forte
un crollo.
È una scrittura tanto precisa
e netta da non lasciare dubbi
né sfumature di senso eppure
non dà direzioni né mete.
La vita nuova irrompe
come un vecchio che cade
sul ghiaccio, un pensiero
davanti a un muro, la
sirena di un’ambulanza.
Non ci sono feriti
né annunci di sciagura
solo noi da convincere
a lasciar perdere il miraggio
di una via rettilinea, di un
orizzonte, lasciarsi curvare,
piegare alla tenerezza
delle anse del destino.
La vita nuova
è come un grande tuono
sbriciolato
poi a poco a poco
l’erba si china
sotto la pioggia
la prende
la beve.
(Tratto da La bambina pugile ovvero La precisione dell’amore, Einaudi 2014)
Audio. La vita nuova, letta da Lidia Sbalchiero
Nota biografica. Chandra Livia Candiani è nata a Milano nel 1952, è traduttrice di testi buddisti e tiene corsi di meditazione. Ha pubblicato diverse raccolte poetiche presso piccole case editrici (tra cui Sogni del fiume e La nave di nebbia. Ninnenanne per il mondo, 2001 e 2005, entrambe per La biblioteca di Vivarium) e ha vinto il premio Montale per l’inedito nel 2001. È stata definita una “poetessa di nicchia” - ma forse è tutta la vera poesia ad appartenere da sempre a questa categoria - con un piccolo e accanito seguito di lettori, un tam tam sotterraneo che l’ha fatta approdare solo negli ultimi anni a un editore di primo piano e una collana importante come la Collezione di poesia di Einaudi. In questa collana è uscita nel 2014 la bellissima raccolta La bambina pugile ovvero La precisione dell’amoreda cui è tratta la poesia che presentiamo in queste pagine. Fresca di stampa, sempre per Einaudi, la sua nuova antologia: Fatti vivo (2006-2016). Le poesie di Chandra Livia Candiani si rivolgono spesso a un tu variabile, che di volta in volta si riferisce a persone presenti o assenti, prossime o lontane nello spazio e nel tempo, o ancora: comunità in potenziale ascolto, entità non individuabili, la morte, parti dell’io poetante (Io ti converto in fame | mio silenzio). Ma questo tu assomiglia molto a un noi creaturale che accomuna dèi, uomini e cose in una sorta di fratellanza universale, in cui l’insistenza pronominale funge più da invocazione che da individuazione. O da istruzioni per l’uso, come nella splendida “Mappa per l’ascolto”: Dunque, per ascoltare |avvicina all’orecchio | la conchiglia della mano o nella corrispondente “Mappa per pregare”. Della stessa serie «pedagogica» è una strofa di “Istruzioni per abbracciarsi”: L’Universo non ha un centro | ma per abbracciarsi si fa così: | ci si avvicina lentamente | eppure senza motivo apparente, | poi allargando le braccia, | si mostra il disarmo delle ali | e infine si svanisce, | insieme | nello spazio di carità | tra te | e l’altro. Chi parla, in questi casi, è una voce sapiente ma non saccente, un soffio leggero con la forza di un vento impetuoso: il risultato di una efficacissima miscela di linguaggio quotidiano e metafore evocative, colloquialità e schemi anaforici sacrali. Ci sono anche poesie sulla parte infantile di sé (secondo lo schema io-tu-noi-tutti) da coltivare o recuperare, poesie sul silenzio, sul desiderio; bellissime quelle sul lutto, declinate in varie fasi della raccolta, che sembrano contenere il massimo di precisione proprio quando i rapporti tra presenze e assenze sembrerebbero entrare nelle zone della vaghezza e dell’oscurità. Pubblicato in Madrugada N. 109
03 marzo 2018
Ricordando Alda Merini
A tutti i giovani raccomando
A tutti i giovani raccomando:
aprite i libri con religione,
non guardateli superficialmente,
perché in essi è racchiuso
il coraggio dei nostri padri.
E rinchiudeteli con dignità
quando dovete occuparvi di altre cose.
Ma soprattutto amate i poeti.
Essi hanno vangato per voi la terra
per tanti anni, non per costruirvi tombe,
o simulacri, ma altari.
Pensate che potete camminare su di noi
come su dei grandi tappeti
e volare oltre questa triste realtà
quotidiana.
Alda Merini. La vita facile, Milano, Bompiani, 2001
Video. A tutti i giovani raccomando
Nota biografica. Alda Merini nasce il 21 marzo 1931 a Milano. Alda è la seconda di tre figli, ma della sua infanzia si conosce poco. Si descrive come una ragazza sensibile e dal carattere melanconico, piuttosto isolata e poco compresa dai suoi genitori ma molto brava ai corsi elementari: "... perché lo studio fu sempre una mia parte vitale". Dopo aver terminato il ciclo elementare frequenta i tre anni di avviamento al lavoro presso un istituto milanese e cerca, senza riuscirci (per non aver superato la prova di italiano), di essere ammessa al Liceo Manzoni. Esordisce come autrice giovanissima, a soli quindici anni. Nel 1947 Merini incontra "le prime ombre della sua mente" e viene internata per un mese in una clinica psichiatrica. Nel periodo che va dal 1950 al 1953 la Merini frequenta per lavoro e per amicizia il poeta Salvatore Quasimodo che beneficerà di alcune poesie a lui dedicate. Nel 1954 sposa Ettore Carniti con il quale avrà un rapporto tormentato e burrascoso. Nel 1962 inizia un difficile periodo di silenzio e di internamento al "Paolo Pini", che dura fino al 1972, con alcuni ritorni in famiglia. Si alterneranno in seguito periodi di salute e malattia, probabilmente dovuti alla sindrome bipolare. Nel 1979 la Merini ritorna a scrivere, dando il via ai suoi testi più intensi sulla drammatica e sconvolgente esperienza del manicomio, testi contenuti in quello che può essere inteso come il suo capolavoro": "La Terra Santa" con la quale vincerà poi nel 1993 il Premio Librex Montale. Le condizioni della poetessa peggiorano nonostante la serenità ritrovata con il secondo marito e nel luglio del 1986 sperimenta nuovamente gli orrori dell'ospedale psichiatrico. Dal 1989 agli anni seguenti diverse pubblicazioni consolidano il ritorno sulla scena letteraria della scrittrice che ritorna alla “ribalta poetica” grazie a numerosi collaborazioni con differenti editori, illustratori e fotografi del panorama italiano. Nel 2004 le sue condizioni di salute peggiorano e il 1° novembre 2009 muore all’ospedale San Paolo di Milano.
28 febbraio 2018
Ricordando Léopold Sédar Senghor
E muoiono di fame
Vedevo nel sogno paesi
fino ai quattro angoli dell’orizzonte
sottomessi alla riga,
alla squadra, al compasso;
falciate le foreste,
distrutte le colline,
nei ceppi valli e fiumi.
Per quanto è grande la terra vedevo
paesi
sotto una griglia di ferro tracciata
da mille rotaie.
E poi vedevo i popoli del sud
formicaio in silenzio al lavoro.
È santo il lavoro
ma non va più col gesto
ritmato dai tam-tam
e dalle stagioni che tornano.
Gente del sud nei cantieri, nei porti,
nelle miniere,
nelle officine,
segregati la sera
nei borghi miserabili.
Accumulano
montagne d’oro rosso,
montagne d’oro nero:
e muoiono di fame!
Audio. E muoiono di fame, letta da Franco Picchini Francone
Nota biografica. Léopold Sédar Senghor (1906 - 2001) è stato uno dei grandi protagonisti del primo periodo della decolonizzazione. Un politico che uscì di scena, rifiutando la deriva dittatoriale di altri leader africani. Nato in una famiglia di agiati proprietari terrieri, all’età di 8 anni iniziò i suoi studi in Senegal in un collegio cristiano e nel 1922 entrò in seminario a Dakar. Quando comprese che la vita religiosa non era la sua strada, frequentò un istituto secolare, distinguendosi nello studio del francese, latino e greco. Al termine degli studi liceali, gli venne assegnata una borsa di studio per continuare i suoi studi in Francia. Si laureò in lettere a Parigi nel 1935 e per i dieci anni insegnò nei licei di Tours e di Parigi. È in questi anni che Senghor, insieme ad altri intellettuali africani venuti a studiare nella capitale coloniale, coniò il termine e concepì il concetto di “negritudine”, intesa come riscoperta e riappropriazione della cultura africana, in risposta alla cultura europea imposta dai colonizzatori. Nel 1946, dopo essersi arruolato nell’esercito francese ed essere stato fatto prigioniero dai tedeschi nel 1942, divenne deputato dell’Assemblea Nazionale francese e due anni dopo fondò un proprio movimento politico: il Blocco Democratico Senegalese. Nel 1956 divenne sindaco della città di Thies (Senegal) e nel 1960 il primo Presidente della Repubblica del Senegal. In questa veste, pur tra gravi difficoltà economiche, cercò di realizzare un socialismo umanistico e cristiano. Nel 1963, in seguito a un fallito tentativo di colpo di Stato, il partito di Senghor rimase l’unico partito politico a non essere messo fuori legge. Sotto la spinta della contestazione studentesca, nel 1976 il presidente è costretto a reintrodurre, seppure con molte limitazioni, il multipartitismo. Nel 1974 ricevette il premio letterario Guillaume-Apollinaire per l’insieme delle sue opere poetiche e nel 1983 divenne presidente dell’Académie française, primo africano a sedere nella prestigiosa istituzione. Nell’ottobre 1980, prima della fine del suo quinto mandato consecutivo, Senghor aveva rassegnato le dimissioni da Presidente del Senegal, in favore del suo successore, Abdou Diouf. Ha trascorso gli ultimi anni in Normandia, dove è scomparso il 20 dicembre 2001. Il suo funerale si è svolto il 29 dicembre a Dakar. Tra le raccolte poetiche di Senghor tradotte in Italia: Canti d’ombra e altre poesie, Passigli, 2000; Il cantore della negritudine, Edizioni dell’Arco, 2014.
27 ottobre 2017
Ricordando Choman Hardi
Il poeta del prossimo numero di Madrugada (in uscita a dicembre) è Choman Hardi, poetessa, scrittrice e traduttrice. La sue liriche sono state per la prima volta tradotte in Italia: “La crudeltà ci colse di sorpresa. Poesie dal Kurdistan", Roma Edizioni dell’Asino, 2017. Lo scorso settembre, Choman Hardi è stata ospite al FestivaLetteratura di Mantova.
Pubblichiamo un brano della bella introduzione di Paola Splendore che ne ha curato anche la traduzione e, a seguire, alcune sue poesie:
“Memoria personale e storia collettiva si intrecciano fittamente nei versi di Choman Hardi. Spesso intitolate semplicemente a un luogo, una data, un evento, le sue poesie raccontano di fughe, arresti e morti violente, disegnano la massa spettrale di villaggi scomparsi e campi di detenzione. La voce dei sopravvissuti, ora impietrita in un dolore senza tempo, ora straziata o rabbiosa, ci mette sotto gli occhi l’orrore del genocidio dei curdi, una realtà ancora poco conosciuta. Ma è l’adesione alla concretezza del quotidiano a imprimersi nella memoria, il senso del passato evocato nella sicurezza degli affetti familiari, nella bellezza di un paesaggio aspro e montuoso, nell’amore per gli oggetti perduti. Nello stupore per la perdita irrimediabile di quel mondo: “Nessuno avrebbe immaginato / questa fine. La crudeltà ci colse di sorpresa”.
Il mio paese
Lo porto con me in borsa ogni giorno
Nei libri sul genocidio –
Foto di fosse comuni, di leader impiccati,
bambini sfigurati da armi chimiche.
Lo porto nei miei ricordi di villaggi rasi al suolo,
sorgenti cementate, terra avvelenata,
rumori, aborti, sterilità.
Canto il mio paese per il silenzio che lo circonda.
Ricordo un paese che tutti gli altri
Hanno dimenticato.
Nota biografica. Oriunda del Kurdistan iracheno, Choman Hardi (nata nel 1974) è cresciuta tra l'Iraq e l'Iran e nel 1993 si è trasferita nel Regno Unito. Ha studiato al Queens College di Oxford, all'University College di Londra e successivamente all'University of Kent di Canterbury. Attualmente vive a Monaco di Baviera e insegna Letteratura inglese all'American University of Iraq. Poetessa, scrittrice e traduttrice, nei suoi versi ha eternato le persecuzioni del regime di Saddam Hussein contro i curdi, i riverberi della guerra nella memoria del suo popolo, la sofferenza degli apolidi. Nel 2004 ha pubblicato una serie di componimenti in inglese, ed è la più giovane poetessa a essere letta nel rinomato progetto editoriale 'Poems on the Underground'. Si è sempre spesa per promuovere la cultura nei piccoli villaggi e nelle grande città del suo paese natale. Nel 2005 ha ricevuto un riconoscimento dalla Fondazione Leverhlume per i suoi studi sulle vedove dei genocidi, che l'hanno vista impegnata in Kurdistan e in Israele. Tra il 2006 e il 2007 ha cooperato per ridurre la discriminazione di genere nei paesi arabi e rendere le donne consapevoli dei propri diritti. scritto da Francesco Monini