di Sara De Carli. Pubblicato in Vita del 13 settembre 2024. Sintesi e rielaborazione di Alessandro Bruni.
Chi paga il welfare? Non ce lo chiediamo mai davanti alle promesse di nuovi bonus, sgravi fiscali, contributi. In un mondo a risorse finite, è evidente che quando le finanze pubbliche mettono risorse su un tema, devono rinunciare a metterle su un altro. A volte addirittura capita che per metterle su quello, le debbano spostare da altro. Eppure la domanda sul “chi paga?” non ce la siamo fatta davanti a quota 100 né davanti al 110% (e nemmeno sulle spese militari e nemmeno sulla costruzione di ponti quando c'è necessità di acqua dal rubinetto).
Invece in questi giorni la domanda campeggia a caratteri cubitali nei titoli dei quotidiani, accanto alla proposta del ministro Giorgetti di più sgravi alle famiglie con figli. I giornali questa volta e solo questa hanno prontamente fatto il conto di quanto tale ipotesi (perché per ora è solo questo) peserà su single, anziani e separati. Come se i figli fossero il nemico.
Chiaramente questo è un problema che in termini generali riguarda il welfare, ovvero un concetto di benessere che viene interpretato in modo differente a seconda del Paese che prendiamo in considerazione e che noi italiani siamo convinti che sono soldi. Che provengono dal Paese dei balocchi.
Secondo l'Enciclopedia Treccani il welfare è:
L’insieme di interventi e di prestazioni erogati dalle istituzioni pubbliche e finanziati tramite entrate fiscali (Welfare State), destinati a tutelare i cittadini dalle condizioni di bisogno, a coprirli da determinati rischi (Stato assistenziale o Stato sociale), migliorarne la qualità della vita e il benessere, garantire istruzione, cure sanitarie, assistenza, previdenza pensionistica, formazione professionale, ricerca universitaria, sostegno al lavoro e all’imprenditorialità, promozione della famiglia ecc. e un tenore di vita minimo in attuazione dei diritti di cittadinanza. Gli strumenti tipici per perseguire gli obiettivi del welfare sono: corresponsioni in denaro, specie nelle fasi non occupazionali del ciclo vitale (vecchiaia, maternità ecc.) e nelle situazioni di incapacità lavorativa (malattia, invalidità, disoccupazione ecc.); erogazione di servizi in natura (in particolare istruzione, assistenza sanitaria, abitazione ecc.); concessione di benefici fiscali (per carichi familiari, l’acquisto di un’abitazione ecc.); regolamentazione di alcuni aspetti dell’attività economica (quali la locazione di abitazioni a famiglie a basso reddito e l’assunzione di persone invalide). Nel modello praticato negli Stati dell’Europa continentale e meridionale, tra i quali L’Italia, le prestazioni del welfare vengono collegati al tipo di professione esercitata: in base al lavoro svolto si stipulano assicurazioni sociali obbligatorie che sono all’origine della copertura per i cittadini. I diritti sociali sono quindi collegati alla condizione del lavoratore. Nel regime socialdemocratico i diritti derivano dalla cittadinanza: vi sono quindi dei servizi che vengono offerti a tutti i cittadini dello Stato senza nessuna differenza. Tale modello promuove l’uguaglianza di status ed è tipico degli Stati dell’Europa del Nord.
Appena il ministro Giorgetti ha ipotizzato più sgravi alle famiglie con figli (magari disabili), la stampa più che pensare a chi questi soldi sono destinati e perché, si è chiesta a quanto ammonta "il conto" per single, anziani, separati, e se questo è un problema penalizzerà i nostri figli. Intendendo per nostri solo quelli che abitano la nostra famiglia: una visione davvero miope.
“C'è una «incapacità di capire che i figli degli altri sono anche figli nostri e che di essi dobbiamo farci carico oggi se vogliamo che essi si facciano carico di noi domani», dice il sociologo ed ex ministro Arturo Parisi. Una affermazione che non è affatto politica ma di sociologia demografica.
L'affermazione di Parisi racchiude due questioni. Da un lato il dato di fatto per cui, essendo i figli ormai pochi e di pochi, la maggioranza delle persone in prima istanza sente il tema come distante, come qualcosa che non le riguarda e che anzi toglie loro qualcosa. Dall’altro una politica che fatica a fare quello che per definizione dovrebbe fare, visto che la politica ha esattamente il compito di individuare e scegliere delle priorità, ma anche quello di ricomporre le esigenze e gli interessi particolari delle singole categorie, dentro una visione d’insieme, ovvero di progettare e costruire un welfare possibile per il futuro.
Come ripete da anni Gigi De Palo, presidente della Fondazione per la Natalità, il problema però è che ormai «pensiamo che il bene comune sia la somma degli interessi particolari. L’interesse delle imprese, più quello delle banche, più quello dei sindacati, più quello dei media, più quello delle associazioni, più quello delle famiglie, più quello degli immigrati, più quello degli immigrati, più quello dell’Europa… uguale “il bene comune”. Ma non è così che funziona.
Il bene comune è il salto di qualità che ci manca. Il denominatore comune da cui ripartire. Oltre gli schieramenti. Oltre le differenze. Oltre i partiti. Oltre il Nord e il Sud, che da troppo tempo vanno per conto loro». Il bene comune dell’Italia sono i figli, lui ne è convinto e non si stanca di dirlo.
“La domanda sul “chi paga” è veramente un’eccezione. Di solito i provvedimenti di spesa, quale sia il Governo di turno, vengono presentati e vantati come elargizioni sovrane (ndr. del paese dei balocchi) senza che ci sia riferimento all’origine delle risorse che ne assicurano la copertura», osserva Parisi.
In questo, di regola, c’è un «contributo determinante, diciamo pure complicità, della maggioranza dei mezzi di informazione, che abituati al fatto che la necessità di dar conto della copertura reale delle spese è tutto fuori che ovvia, distraggono i cittadini dal fatto che piaccia o non piaccia il mondo in cui viviamo è appunto “un mondo a risorse finite”». La norma quindi, annota con amarezza Parisi, è «il sostanziale e consolidato disinteresse al futuro che va spingendo “il Paese”, verso una situazione del tipo “l’ultimo spenga la luce”».
Una metafora di grande impatto, per dire che «anestetizzati da una descrizione della crisi demografica affidata troppo spesso a fredde illustrazioni di dati statistici, un numero crescente di italiani si è abituato ad appoggiare il proprio futuro sulle spalle di figli che per i più vari motivi altri si sono trovati a mettere al mondo».
Chi i figli non li ha, dei figli degli altri beneficerà. «Più che a una contrapposizione con la generazione futura, quello al quale assistiamo è una incomprensione all’interno della generazione presente e alla incapacità di capire che i figli degli altri sono anche figli nostri e che di essi dobbiamo farci carico oggi se vogliamo che essi si facciano carico domani di noi. Non solo in un lontano e astratto “domani”, ma anche in quello immediato e concreto».
per leggere l'articolo originale completo aprire questo link
Commento di Alessandro Bruni
Parlando in questo blog di persone autistiche che in molti casi rimarranno parzialmente dipendenti a vita dal sostegno del welfare, dobbiamo dire che questo discorso sul chi paga ci interessa. Oddio, non è che attualmente il welfare pubblico spenda le somme necessarie per educare bambini, adolescenti, adulti autistici ad inserirsi nella vita attiva. Tanto che in gran parte il peso di questo welfare grava sulle famiglie che si devono rivolgere a privati, tra l'altro contribuendo al mantenimento di operatori in un numero non piccolo. In questa condizione se ci rivolgiamo la domanda chi paga il welfare degli autistici, dovremmo rispondere che grava in gran parte sulle famiglie e il pur lieve aiuto che elargisce lo Stato cessa o quasi nel momento in cui l'adolescente diviene adulto. Non viene quasi preso in considerazione che lo svolgimento di una attività educativa appropriata per minori autistici favorirà il loro inserimento nella vita attiva del Paese, non come poveri disabili abbandonati in comunità periferiche tra i non visibili, ma come persone che possono alleviare allo Stato le spese della loro parziale dipendenza. Utopia? Ma a dire il vero questo modello nell'Europa del Nord è favorito, dato che promuove l’uguaglianza di status e contribuisce alla riduzione della spesa del welfare sociale. E non rimane nessuno a spegnere la luce.