Per molti anni nel tragitto tra casa e università mi è capitato di incontrare sulla pista ciclabile una strana coppia costituita da un uomo maturo che camminava appena dietro ad un giovane. Un padre con il figlio, al quale teneva la mano sulla spalla. Camminavano in silenzio tranne per poche parole dette dal padre il cui incedere era elastico, mentre il figlio aveva un passo incerto e spesso incespicava, Era una scena costante al mattino e alla sera, una passeggiata che si svolgeva in avanti e indietro nei sei chilometri che dividono la città dalla periferia.
Era un padre che accompagnava un figlio disabile in lunghe passeggiate sempre solitarie, senza mai fermarsi a fare crocchio con i passanti. Li percepivo apparentemente sereni e determinati, anche se talora il padre era impegnato a parlare pacatamente con il figlio e questi col capo chino non seguiva traiettorie di passi certi. Pur non avendo mai avuto l'occasione di parlare loro, mi stupiva la costanza di questa abitudine con qualsiasi tempo, mi stupiva la loro solitudine, l’essere continuamente schivati dagli altri e la loro determinazione volitiva negli anni, almeno una quindicina, di mia osservazione dall’auto. Non nascondo che talora alternavo stupore a fastidio nel vederli e mi chiedevo se anch’io sarei finito così o se avrei avuto la forza di amare così tanto un figlio da superare l’amore che avevo per me stesso. Mi sono sempre chiesto se la loro vita era felice, mi sono sempre chiesto se sarei stato felice nella condizione di quel padre e oggi mi chiedo se una famiglia con un bambino con autismo può sperare di vivere felicemente.
Chiaramente quella descritta è una condizione di dissonanza cognitiva. Una condizione che si verifica quando una persona si trova a fronteggiare situazioni contemporaneamente contrastanti. Questo conflitto interiore genera uno stato di tensione psicologica che il nostro cervello cerca disperatamente di risolvere. Sappiamo che è un conflitto che si risolve solamente divenendo consapevoli di quanto ci potrebbe accadere. Questa è la radice del problema e sempre più genitori di fronte all’autismo sentono il disagio e l’inadeguatezza del vivere in uno stato di eterna infelicità. Sono questi i momenti in cui si deve esprimere coraggio, quello vero, non quello retorico.
La dissonanza cognitiva è una testimonianza della complessità e, a volte, dell’imperfezione del cervello umano. Riconoscerla e comprenderla non è solo un passo verso la maturità psicologica, ma anche una chiave per sbloccare una più profonda autoconsapevolezza, come individui, ma anche come specie. Bariselli A. p. 58.
Studi psicologici hanno dimostrato che gli anziani oltre ai ricordi, tutti regolarmente falsificati ad ogni racconto, vivono interiormente soprattutto di rimpianti legati al rammarico di aver agito in modo diverso rispetto ai propri principi (Corticelli G. et al. Regret and Its Avoidance: A Neuroimaging Study of Choice Behavior, in “Nature Neuroscience”, 2005 pp.1255-1262). Un segnale ai più giovani di quanto loro accadrà nella vecchiaia, quando il rimpianto determinerà un aumento dell’attività nella corteccia orbitofrontale mediale, la parte del cervello che si ritiene sia la sede delle emozioni connesse con la felicità. Questo significa che prima della vecchiaia dovremmo attrezzarci per evitare di fare scelte di comodo, di opportunità, perché queste, inevitabilmente saranno fonte di rimpianti, di depressione, di vuoto esistenziale, prodromo di tante demenze senili. Dovremo fare scelte tra l'essere oggi e l’essere domani con una domanda pressante: questo impegno verso un figlio senza speranza vale davvero il tempo dedicato?
E’ la domanda che mi sono posto quando sono diventato caregiver familiare di mia madre ultra novantenne: fino a che punto vale la pena che io sottragga tempo alla mia famiglia e a me stesso per accompagnarla in un percorso senza speranza? Anche questo è un chiaro conflitto di dissonanza cognitiva non risolvibile con scelte solo razionali e non risolvibile solo con scelte affettive. La soluzione in questi casi è quella nota: con dolore e con sollievo si ricoverano i nostri cari disabili in una struttura, ben sapendo che in quel luogo possono avere cure e attenzioni di competenza professionale e strumentale che a casa non è possibile avere, ma è anche altrettanto chiaro che li abbiamo posti in un limbo psicologico che ci libera solo parzialmente e che ci tormenta con sensi di colpa ( e di ricorrenti assunti di realtà per giustificarli). Il vivere moderno impedisce sul piano della filosofia di vita di dedicare gran parte del proprio tempo alla visita di questi ricoverati (che tra l’altro non si capisce bene se gioiscono alla nostra visita o se si scompensano rispetto al loro quotidiano). Allora che fare? Non c’è dubbio che la via intermedia del cercare di salvare noi e il contorno della vita familiare è la migliore. Sempre in teoria, dato che la pratica è assai faticosa e non è garanzia di successo.
Già, ma a proposito, di quale successo?
Abbiamo capito che quali che siano le cause dell’autismo, la qualità della vita di chi ne è colpito dipende molto da quanto la società riesce a favorire un adattamento reciproco. E in questo la famiglia è fondamentale poiché è il luogo principale in cui educare all’empatia che è la base dell’adattamento reciproco.. E’ un tema già affrontato dagli psicologi sociali, la cui soluzione non è generalizzabile sempre perché dipende dai caregiver familiari impegnati e dagli altri componenti della famiglia. Un esempio per intenderci: è meglio dedicare un pomeriggio alla visita alla propria madre ricoverata o a aiutare il proprio figlio a studiare? Il primo aspetto è senza speranza, il secondo è operare per il futuro. Si può superficialmente dire che il tema è antico e da sempre presente nella cura che la famiglia ha verso i propri componenti anche quando non esistevano le strutture di ricovero di disabili, ma è un assunto sbagliato. Allora la famiglia aveva un suo microcosmo limitato che si svolgeva in una realtà di paese sempre limitata. Oggi il nucleo familiare è molto più esternalizzato: entrambi i genitori lavorano, i nonni abitano da soli e vivono la loro vita, le relazioni parentali di famiglia allargata si riducono alle feste comandate (talora con fastidio, perché allora a sciare quando vado?), poi, in aggiunta la stessa base familiare non è detto che sia composta dai due genitori biologici dato che spesso si ritrovano a relazionarsi con il compagno o la compagna del genitore divorziato. Insomma, un mondo largamente frammentato (spesso frantumato!) che non si può facilmente ricomporre nell’esercizio delle cure plurime per un anziano e nemmeno nell’esercizio dell’educazione speciale che esige un figlio con autismo.
Oltre a questo stato di cose di pertinenza psicosociale, esistono anche altre considerazioni prettamente psicologiche individuali. Ogni nostra scelta importante di vita nella nostra mente non si cancella, ma si sovrappone in parte (perché il ricordo è sempre falsificato dalle riletture successive) e da quella esperienza si traggono insegnamenti per quella successiva. In passato il processo era lento e poco elastico: la famiglia era un albero colonnare dai robusti rami, il legame di sangue era esaltato (tanto che i figli nati fuori dal matrimonio erano definiti bastardini) e i comportamenti fortemente condizionati (ovviamente nel bene e nel male). Oggi la famiglia è un cespuglio che non ha tronco colonnare, ma rami che si sviluppano dal basso e si aprono al mondo con scelte plurime e diversificate, la libertà di azione è fondamentale, la scelta di rimanere uniti la si sperimenta ogni giorno per mezzo di lacci annodabili e snodabili più volte (si pensi all’amore tra partner). La mia non è una critica alla famiglia, non è una condanna alla famiglia tradizionale e non è una condanna alla nuova famiglia in continua costruzione. E’ semplicemente un dato di fatto, che tra l’altro vivo nella mia stessa famiglia (Bruni A. 2011).
E allora, come la mettiamo con la ricerca della felicità (mi verrebbe da dire con l’educazione alla felicità) in una famiglia con un bambino, e poi con un adulto, con autismo grave? Sul piano psicologico individuale si deve fare i conti con uno strisciante senso di colpa che, con lo scorrere dell’età, diviene più marcato. Si insinua il dubbio di non essere riusciti a fare le scelte giuste nel momento in cui erano necessarie. La soluzione non può che essere personale, senza banalizzazioni, senza nascondimenti, senza esagerazioni drammatiche, ma con consapevolezza di noi stessi in una condizione in continuo rivolgimento in un contesto anch’esso in rivolgimento. Come ebbe a dire Walter Bonatti, alpinista ed esploratore (cito a memoria), l’essere umano vive in città, mangia senza fame e beve senza sete, si stanca senza che il corpo fatichi, rincorre il proprio tempo senza raggiungerlo mai. E’ un essere imprigionato in una prigione senza confini da cui è quasi impossibile fuggire. L’uomo ha bisogno di riprendersi la propria vita, di ritrovare la strada maestra. Non tutti ci provano, in pochi ci riescono.
Dobbiamo riflettere sulla nostra adesione ad un sistema basato sullo spreco del tempo a cui la società contemporanea ci costringe e che non può portare certo nulla di buono: sacrifica relazioni, affetti, amicizie, passioni, crescita personale, ozio e risate, in favore di una produzione di bisogni artificiali e di debiti per poter mantenere questi bisogni al di sopra delle effettive possibilità di ciascuno di noi. Bisogna fermarsi, e se esiste qualcuno a cui volete bene, diteglielo e dimostrarglielo adesso, diteglielo ogni giorno, perché non sapete quante possibilità avrete ancora di ricordarglielo. Senza fretta. Questo è un percorso che va condiviso in famiglia, e con altri, con idee chiare e strumenti adeguati: il primo dei quali è per certo la conoscenza di quanto ci sta accadendo.
Pensare alla propria vita con un figlio con autismo è come svegliarsi al mattino e vedere la nevicata della notte precedente. E’ un dato di fatto, è un manto soffice, imprevisto che ci fa pensare: e ora come faccio ad uscire? Ma è solo guardando bene il disagio imprevisto che ci si accorge che è composto da tanti piccoli cristalli di meravigliosa bellezza che ci fanno ardire ad uscire e azzardare di vivere nuove esperienze in cui metterti alla prova. E’ una scelta di vita che non va giudicata, non deve essere imposta, deve essere libera nella consapevolezza dei conflitti che genera, nel voler sperimentare per non affrontare la vita subendola.
Che garanzia avremo? Nessuna.
Vivere seduti davanti alla porta di casa a guardare gli altri passare è rischioso quanto camminare mettendo una mano sulla spalla di nostro figlio. La differenza sta nel fatto che si può dire: io c’ero e ad alcuni questo basta perché per loro la felicità, quella vera, è essere lì con lui.
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